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Moni Ovadia

Il muro, riflesso di un declino

La pubblicazione del saggio “lo Scontro delle Civiltà” del sociologo statunitense Huntington, ha avuto più fortuna per l'efficace titolo che per le sue assai discutibili e farraginose argomentazioni. E anche la fortuna del titolo stesso è più legata al confortevole schematismo espressovi, che al suo corrispondere anche in termini approssimativi agli inquietanti scenari con cui si è aperto il terzo millennio dell' “era volgare”. Un esempio apparente di scontro di civiltà lo abbiamo visto nei giorni appena trascorsi in occasione del processo al muro che il governo israeliano del generale Sharon sta erigendo con il preteso scopo di fermare il terrorismo suicida palestinese che ha mietuto oltre mille vite di cittadini israeliani fra cui quelle di civili fatti a pezzi nelle loro città. I palestinesi peraltro, hanno avuto il triplo delle vittime, molte delle quali civili inermi, in quella prigione a cielo aperto che, eufemisticamente, viene chiamata Territori dell'Autonomia Palestinese. Il processo che si svolge nella capitale olandese è tenuto dal Tribunale Internazionale per i Crimini contro l'Umanità a cui le istituzioni palestinesi si sono rivolte per ottenere la condanna di quel muro che essi considerano il muro dell'apartheid. Gli israeliani dal canto loro non riconoscono all'Alta assise che ha sede in Olanda la giurisdizione su quelli che essi definiscono un problema politico e si sono limitati ad affidare le loro ragioni ad una memoria scritta. Ciò che abbiamo visto svolgersi all'Aia fra i manifestanti delle due parti, convenute per l'apertura delle sessioni e tenute a debita distanza dalle forze di polizia, è piuttosto la testimonianza di una “civiltà” dello scontro. Ciascuna delle due parti esibiva i propri dolori mostrando le foto dei propri cari che non ci sono più e non dava prova di sensibilità nei confronti dei dolori della controparte, con la sola eccezione di alcuni rabbini antisionisti che manifestavano a favore dei palestinesi scompaginando la par condicio. L'Aia e Ginevra – dove poche settimane fa altri israeliani e palestinesi hanno siglato un dettagliato accordo di pace basato sul reciproco riconoscimento – sono sembrate negli ultimi giorni, città di differenti galassie. Il processo al muro è ritenuto da molti, pur vicini alla causa palestinese, poco opportuno. Sicuramente la sua efficacia è molto limitata per il rifiuto dell'imputato di riconoscere legittimità al tribunale.

Quel muro è il segno materico di altri muri interiori che dividono sempre più gli animi in una spirale perversa di cui non si vede uno svincolo. Le ragioni degli israeliani non convincono la comunità internazionale perché il muro ingloba terre palestinesi dividendo e segregandone i cittadini. In termini diplomatici, il confine fra i due stati è generalmente considerato quello della linea verde e la stragrande maggioranza dei paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti e l'opposizione israeliana, giudica illegittimo il perdurare dell'occupazione e la colonizzazione delle terre abitate dai palestinesi a seguito della guerra arabo-israeliana del '67. Quelle terre, il generale Sharon, il suo schieramento e i loro sostenitori, le definiscono con maniacale attitudine autoreferenziale, terre contese e dunque ritengono corretto farvi passare il uro. Le forze islamiste ed estremiste dello schieramento palestinese, rispondono a quella scelta con atti di terrorismo deflagrante che rinforzano in Sharon, nei suoi sostenitori e nella grande maggioranza degli israeliani sgomenti, la voglia di muro, mentre l'idea di pace appare ogni giorno più remota ed inattuale. Questo circolo vizioso produce uno stato delle cose che mi pare si possa giustamente definire “civiltà dello scontro”. Lo scontro delle civiltà non ha ragione di essere, soprattutto perché tutte le civiltà presentano forti caratteri recessivi e tendono a piegarsi al contesto di forzosa omologazione come è quella del mondo globalizzato. Quella occidentale-cristiana, sterile di qualsivoglia spiritualità se non velleitaria, è tendenzialmente avvitata su un perverso economicismo rapinoso e sopravvive su simulacri di glorie già passate come l'idea di democrazia che nei fatti viene pervertita dalla leadership statunitense con la sistematica demolizione di ogni presupposto di legalità per mezzo di una devastante teoria e prassi della guerra preventiva ed enduring. L'Islam, orfano della propria grandezza, è monopolizzato dalle sue correnti più rozze che lo fanno vivere di reazione e non di proposte. Le sue pur esistenti ricchezze di pensiero sono sommerse dalle prepotenze fondamentaliste attizzate dalla protervia dell'egemonia occidentale. L'Ebraismo nelle sue componenti maggioritarie ha scelto di appiattirsi su questo Occidente conservatore ed isterilito e di concentrarsi sul tema della sicurezza di Israele e sul risorgente antisemitismo.

Questi ultimi sono indiscutibilmente temi cruciali, ma non possono diventare feticci mentali che paralizzano ogni altra prospettiva. Non possono legittimare regressioni etiche e comportamenti incompatibili con i grandi valori del pensiero ebraico in particolare nella politica dei governi dello Stato di Israele. Il muro è il mediocre e frustrante riflesso di un declino della forza del pensiero.

Moni Ovadia – L'UNITA' – 28/02/2004


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