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Moni Ovadia

Strada 181

Un film, senza interpreti né registi famosi, messo in onda da una televisione di nicchia come Arté e presentato al Festival Cinéma du réel che si tiene al Centre Pompidou di Parigi, ha creato in Francia l'ennesimo affaire sulla questione mediorientale. Il film in questione è “Route 181”. Ne sono autori due registi, il palestinese Michel Khleifi che vive in Belgio e insegna cinema alla Columbia University di New York, e l'israeliano Eyal Silvan, residente in Francia dal 1986. quest'ultimo è noto e ferocemente odiato per le sue idee antisioniste e per essere sostenitore di uno stato binazionale laico. I due cineasti sono legati da una profonda amicizia di lunga data. Il film è una sorta di viaggio lungo il confine fra lo Stato di Israele e la striscia di Gaza fino al nord della Galilea seguendo la linea di separazione della Palestina sotto mandato britannico disegnata dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 1947. Il viaggio è segnato da una lunga serie di interviste e testimonianze ad abitanti sia palestinesi sia israeliani di quella frontiera, inframmezzata a tratti da riprese in movimento di binari ferroviari che secondo i detrattori della pellicola, sono plagiate dal dal film di Claude Lanzman “Shoà”.

La controversia ha avuto inizio nel mese di febbraio con una lettera indirizzata al presidente del Centro Pompidou e alla giuria del Festival firmata da una dozzina di intellettuali – fra i quali l'universitaria Anny Dayan Rosenman, i cineasti, Erich Rochant, Noémie Lvovsky, il filosofo Bernard-Henry Lévy e lo scrittore Philippe Sollers – in cui si manifesta inquietitudine e molto contestate e che prende parte a un punto di vista che avvelena il dibattito politico sulla questione israelo-palestinese (...) Il plagio di intere scene del film di Claude Lanzman, “Shoà”, finisce per illustrare una pratica perversa e sistematica la cui logica profonda è la trasformazione delle vittime in carnefici. Programmare questo film non può e non vuole altro che suscitare odio in un momento che è anche il momento di iniziative ufficiale e ufficiose portatrici di speranze per un regolamento pacifico del conflitto (l'accordo di Ginevra, iniziativa Ayallon-Nesseibeh) costituisce un atto politico che non è privo di conseguenze e di gravità”.

Il direttore del Pompidou ha preso la decisione di sospendere una delle due programmazioni previste, per ragioni di ordine pubblico e per l'impossibilità di garantire la necessaria serenità e pace ad entrambe le proiezioni. Il dibattito fra i sostenitori della censura e quelli contro la limitazione al diritto di opinione, si è acceso e ha avuto varie fasi fra le quali la firma di un appello da parte di altri intellettuali, più di seicento, fra i quali Godard, Vidal-Naquet, Todorov, Segal, Masperò, per esprimere una grande apprensione riguardo alla decisione della cancellazione di una delle proiezioni: “...una decisione che si apparenta ad una censura senza chiamarsi col suo nome.

Noi senza necessariamente condividere le scelte e i punti di vista espressi nel film riteniamo inaccettabile il catalogare quest'opera come portatrice di propositi a atti antisemitici o giudeofobi (...). In quanto opera dell'ingegno, “Route 181” partecipa ad un dibattito intellettuale in cui ciascuno è libero di esprimere le proprie critiche”.

Ognuna delle due parti in campo porta le ragioni della propria sensibilità e dei propri pensieri, ma all'indomani dello spaventoso attentato terrorista di Madrid, il senso di questo dibattito assume una particolare urgenza.

Quando sono “affondate” le Twin Towers di New York, in un trasalimento emotivo e viscerale moltissimi hanno detto che eravamo tutti americani. Molti erano sinceri, ma al di là della doverosa solidarietà umana, in fondo al cuore di quasi tutti c'era il senso della distanza e della diversità. Gli americani sono gli americani, hanno una politica di superpotenza, hanno un'altra identità. I morti di Madrid, come ha scritto Giovanni Raboni, sono come noi. Anzi, siamo noi, il terrorismo ha le sue logiche, la sua patologia, il nostro modo di pensare non può misurarcisi. All'orrore seguiranno le analisi, la ricerca delle responsabilità e delle cause profonde. Per ciò che mi riguarda è più importante porsi delle domande. In che mondo vogliamo vivere e come intendiamo costruirlo? Vogliamo essere democratici? Ci sono prezzi da pagare? Bisogna difenderla ad ogni costo. I diritti sono principi fondanti? Bisogna che tutti ne siano titolari. E' auspicabile un mondo ricco delle sue diversità? E' necessario rimboccarsi le maniche e lavorare duro con pazienza. Le belle parole non bastano e rischiano di anestetizzare. La vita di ogni essere umano è sacra? Allora lo è sempre e dovunque. E la libertà di esprimere il proprio pensiero? E' inviolabile. Perché possa essere responsabile.

Moni Ovadia – L'UNITA' - 13/03/2004


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