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Duemila anni fa, un grande maestro dell'ebraismo, Rabbi Shmuel se ricordo bene, era solito rispondere ai propri allievi che gli chiedevano cosa fosse in loro potere fare per sollecitare la venuta del messia: tsedakà!. La parola nella lingua santa della Torah significa carità, ma ha la stessa radice della parola tsedek, giustizia. Rabbi Shmuel precisava il proprio pensiero spiegando che la tsedakà è come la scala d'oro: il primo gradino lo sale chi dà con la mano ma non con il cuore., il secondo gradino lo sale chi dà con la mano e con il cuore, il terzo chi dà con la mano e con il cuore, vuole sapere chi riceve e vuole che chi riceve sappia chi gli ha dato. Il quarto gradino lo sale chi dà con la mano e con il cuore, vuole sapere chi riceve, ma non vuole che chi riceve sappia chi gli ha dato e così via ascendendo nella generosità e nel disinteresse. Ma l'ultimo gradino nella scala d'oro della tsedakà, diceva Rabbi Shmuel, lo sale chi crea lavoro e conoscenza in modo che nel mondo non vi sia più bisogno della carità e ciascuno abbia ciò che gli abbisogna nella piena dignità della propria vita. Questa è la morale del racconto anche se probabilmente ne ho forzato la lettura. Del resto un buon narratore deve saper trasformare un po' il racconto per potere accedere ad un proprio livello di interpretazione. Dunque il messianesimo è un tempo, un'era di equità sociale in cui si coniugano lavoro e consapevolezza perché nessuno debba dipendere dalla maggiore disponibilità altrui e dalla sua disposizione a concedere. Considerando la condizione attuale del nostro mondo, dobbiamo tristemente constatare che la venuta del Messia sembra allontanarsi invece che approssimarsi. Oggi è la Festa del Lavoro. Nella nostra Repubblica uscita dai valori della Resistenza, dovrebbe essere la ricorrenza più significativa, più sentita da ogni cittadino. Il primo articolo della nostra Costituzione recita solennemente: L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il cittadino lavoratore, sulla base di questo dettato, dovrebbe trovarsi al vertice della scala sociale. Non è così. Oggi l'uomo che ci governa proviene da una cultura che non potrebbe essere più lontana dallo spirito della Costituzione. E' lecito ritenere, facendo riferimento ai suoi ripetuti pronunciamenti, che se potesse cambierebbe l'articolo 1 con parole più consone alla sua Weltanschauung: L'Italia è un'azienda e io ne sono il legittimo proprietario. Naturalmente si scherza, ma il riso è amaro o per meglio dire ha il sapore del fiele. Le due condizioni sociali del cittadino e del lavoratore hanno sempre meno rilevanza etica e la democrazia politica arretra a favore di una versione economico-finanziaria del contratto sociale subordinato alla mistica posticcia di un iperliberismo che ha per unica divinità il mercato in quanto ente ineffabile ed indiscutibilmente. Nelle regole feroci di questa antica religione riadattata ai tempi, l'essere umano conta sempre di meno, l'idea di cittadino diventa eretica e il lavoratore ritorna ad essere servo. Rispetto ai vecchi tempi di Mamona, le tecniche di schiavizzazione si sono naturalmente raffinate, non c'è bisogno della palla al piede, bastano la televisione, l'ipermercato aperto la domenica, il turismo di massa. La nuova idolatria permette ai pochissimi ricchi di divenire sempre più ricchi e potenti con minor fatica e minor rischio di ribellioni. Il poco corrisposto alla forza lavoro, viene in gran parte ripreso con strumenti incruenti ma non per questo meno vili come l'ignobile speculazione sull'euro. Allo stesso modo di ogni religione che si rispetti, anche quella del dio mercato fonda un proprio linguaggio per ratificare le nuove consuetudini culturali. Lo stato diviene burocrazia delle corporation, il cittadino diventa utente, la scuola diventa servizio erogato e lo studente e la famiglia fruitori del servizio, i vecchi e obsoleti bidelli verranno in futuro chiamati magari steward e hostess per rendere gradevole il soggiorno dello studente cliente nella sede delle tre i. In questo contesto, il lavoratore diventa risorsa umana il cui corpo è forzato con iterati anatemi e minacce ad acquisire una proprietà intrinseca: la flessibilità, pena il rischio di spezzarsi o, come ha mostrato in una acuta vignetta il geniale Vauro, di essere spezzato. Il lavoratore spremuto a pochi soldi viene poi alla fine pensionato in una vita grama ai confini dell'inesistenza. Il Primo Maggio è la festa ed il pilastro della memoria di qualsiasi società che si voglia giusta. In questo giorno celebriamo l'epopea di quegli esseri umani che, più di ogni altro, hanno contribuito al cammino dell'edificazione umana e hanno meno ricevuto, quando non sono stati umiliati, vessati e oppressi in cambio della loro infinita pazienza. Ancora oggi lo sfruttamento e l'ingiustizia infieriscono contro lavoratori piccini e grandi che hanno come unica risorsa il proprio lavoro. Ancora oggi milioni e milioni di lavoratori svolgono le loro attività in condizioni malsane e pericolose esposti ad ogni sorta di malanno, irrisi da false promesse e senza tutele di sorta. E laddove queste tutele sono state conquistate, si cerca di toglierle con la scusa dell'efficienza e della produttività per indebolire il potere contrattuale di chi lavora ed incrementare le già smisurate ricchezze di un esiguo numero di padroni dell'economia e della finanza. Oggi e ogni Primo Maggio, siamo chiamati ad essere con questi lavoratori e con tutti i lavoratori per testimoniare che, senza il riconoscimento della pienezza dei diritti del lavoro, si ricade nella giungla del sopruso, dell'arbitrio, della prepotenza, del privilegio. Moni Ovadia L'UNITA' 01/05/2004 |
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