Il Papa ha
chiesto aiuto. Lo ha fatto domenica, durante l'omelia e la messa
a Lourdes. “Aiutatemi”, ha detto a chi gli stava
intorno. E chiedendo aiuto, questo pontefice ci racconta che
l'essere umano è infinitamente più bello delle
dottrine.
Una delle
grandi lezioni dell'etica monoteista è che la redenzione
dell'umanità, basata sull'idea di libertà, santità,
uguaglianza e giustizia sociale, parte dall'handicap e non dalla
forza. E questo Papa è sempre partito dalla fragilità.
Si presentò dicendo: “Se sbaglio mi corrigerete”.
Io sono uno che sbaglia. Io parlo male la vostra lingua. Sono un
po' come Mosé: sono un po' balbuziente, mi inceppo, sono
buffo e goffo. Non è grave”.
Quindi
il capo della Cristianità, il bianco padre di Roma è
un uomo fragile, che parla male, perfino un po' buffo e ridicolo.
Ma non lo nasconde, anzi lo rivendica. Ovviamente, non è
l'unico tratto del suo pontificato: Wojtila ha mostrato la parte
forte della Chiesa, quella dottrinaria, più rigida, ma non
ha nascosto quella debole che secondo me è la migliore,
quella che noi amiamo: essere dottrinari è delle
burocrazie, la fragilità è degli esseri umani.
Allora questo è il
Wojtyla che ci piace, con la mano tremante dal Parkinson, una
mano che cerca la conciliazione fra le religioni quando infila
con fatica il bigliettino, il messaggio all'Onnipotente, nel Muro
del Pianto. E ancora una volta, domenica, ha chiesto aiuto. Io
sono solo un pover'uomo, sono fragile, corruttibile, una voce che
parla nel deserto, ma vi lascio questo messaggio: imparate a
essere deboli e a riconoscere la vostra debolezza perché
la pace arriverà solo quando noi ci riconosceremo esseri
fragili, quando non avremo più la mistica della potenza, i
deliri del «Dio è con noi», del redimere il
mondo con il sangue.
È
la fragilità, invece, ad aver ispirato la redenzione. Non
la forza. Abramo, per esempio, non è un uomo forte. Anzi,
quando frantuma gli idoli del padre sembra un matto. La sua
azione è quasi umoristica: simula una battaglia fra idoli,
dice al padre che sono stati loro a farsi guerra e che quello è
il risultato. Naturalmente il padre non gli crede: «Non
essere cretino: come fanno dei pezzi di pietra a combinare questo
disastro?». E allora Abramo gli risponde: «Padre,
perché le tue orecchie non arrivano a sentire ciò
che dice la tua bocca?». Abramo non è forte, anzi
per il suo tempo è proprio matto. E poi c'è
Isacco. E un altro handicap: la cecità. Il mancato
sacrificio di Isacco è la rottura dell'idolatria tribale,
e bandisce per sempre l'idea che il padre sia il proprietario del
figlio. Eppure, il destino di Isacco sarà appunto quello
di diventare cieco.
E
Giacobbe? Volersi misurare col Divino, nel sogno della lotta con
l'angelo, lo porterà a una claudicanza; ancora un
handicap, ma uno zoppo cammina sempre fra cielo e terra, non è
mai completamente a terra come deve essere la vera spiritualità.
E ancora ancora una volta un handicap ci parla di una
spiritualità per essere umani, non per angeli.
E
Mosè che è balbuziente e chiede: «Perché
proprio io dovrei guidare la liberazione di questo popolo? Io che
sono lento di lingua e di parola e quindi non so parlare bene?».
Ma un balbuziente, con il suo handicap, introduce silenzi
vertiginosi nell'arroganza della parola ed è in quei
silenzi che si sente la voce di Dio. Dio si ascolta nell'handicap
e non nella forza.
E
Gesù? Sulla croce chiede: «Signore, perché mi
hai abbandonato?». Il dubbio, la fragilità. Ho fatto
bene? Non ho fatto bene? Perché mi abbandoni in questo
momento? Dunque, ancora una volta debolezza. Questo ci fa capire
che la redenzione può venire solo dalla forza della
fragilità, e non dall'elemento dominante sul quale l'uomo
ha voluto basare la sua storia: la forza. Il più forte
vince, il più forte domina.
Del
resto, se pensiamo a Omero, ciò che rende umano Achille è
il suo tallone vulnerabile. Senza quel tallone, Achille sarebbe
una specie di semidio nazista che può ammazzare tutti,
perché tanto nulla lo scalfisce. Bella forza.E il massimo
della gloria di Cassius Clay, pugile straordinario ed elegante,
non è forse il suo Parkinson? Non sono i suoi pugni
tremanti il segno che la sua gloria era umana e non frutto del
doping? Se nelle arene gareggiassero semidei sarebbe divertente?
No, perché il vero valore degli uomini è la loro
struggente fragilità.
Quando
il Papa chiede aiuto è come se dicesse: la cattolicità
ha bisogno degli altri, la cattolicità in me incarna la
sua fragilità. E se impariamo a chiedere aiuto gli uni
agli altri, riconoscendo la nostra immensa debolezza, forse
potremo aprire il solco della pace.
Moni
Ovadia – IL SECOLO XIX - 17/08/2004 (testo raccolto da
Renato Tortarolo)
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