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Moni Ovadia

Sono orfano di un poeta

La scomparsa di Giovanni Raboni, per quelli che come me lo hanno conosciuto e sono stati onorati dalla sua amicizia, è un evento che cambia la vita. Oggi senza Giovanni mi sento diminuito e sono più solo. Il suo riconoscermi ed accogliermi senza riserve quando arrancavo per manifestarmi in un progetto artistico e di vita mi ha fatto emergere alla luce, consentendomi di portare a termine un lungo processo di individuazione. Lo ricordo nitidamente con la sua inconfondibile chioma candida e lucente fra le teste del pubblico del Teatro Filodrammatici, alla fine del mio spettacolo “Golem”. Non applaudiva, per sobrietà personale e deontologia di critico era alieno dai gesti plateali, ascoltava gli applausi degli spettatori. Poi con loro si allontanò con calma. Non conoscendolo pensai che il mio lavoro non gli fosse piaciuto. Quanto mi sbagliavo. Due giorni dopo uscì sul Corriere una sua recensione di mezza pagina che mi fece nascere al teatro italiano. La cosa si ripetè per “Oylem Goylem”. In quell'occasione nacqui anche per il grande pubblico. Quello stesso anno lui, grandissimo, autentico poeta, attribuì a me, saltimbanco e ciarlatano, il titolo di poeta yiddish sul podio della stagione teatrale. In seguito abbiamo cominciato a vederci ed alla stima ha fatto seguito l'affetto e l'amicizia. Da quelle prime volte in poi, il senso di ogni mio lavoro si è compiuto solo, quando a sipario chiuso, vedevo far capolino nei camerini Raboni accompagnato da Patrizia Valduga. Da tempo Giovanni non era più il critico del più prestigioso quotidiano nazionale, ma per me il loro giudizio era il riferimento irrinunciabile. Io ho con l'uomo e con il poeta un debito inestinguibile, non ho potuto saldarlo nel tempo della nostra frequentazione e non potrò farlo nel tempo della vita che mi è ancora assegnato, ma quel debito fa sì che Giovanni rimanga accanto a me, “concretamente”. Fra i tanti pensieri suoi che mi hanno colpito, oggi che mi sento orfano della sua inestimabile presenza, mi viene alla mente l'idea di comunità umana che espose nel corso della presentazione di un video sulla sua figura di poeta e cittadino, prodotto dalla Provincia di Milano. L'incontro si teneva nella sala del cineclub Obraz fra le sue riflessioni Raboni distillò questa frase: “Noi siamo una comunità di viventi e di morti”.. Quelle parole mi sono entrate nel cervello come un tarlo, hanno fatto risonanza con la mia identità ebraica. Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, il salmista Davide, i profeti, i maestri del Talmud, del Khassidismo, i Primo Levi sono parte della comunità a cui appartengo, ora e sempre, così come lo sono tutti coloro che si sono battuti per il riscatto degli oppressi, da Spartaco a Che Guevara passando per Marx, Ghandi e Martin Luther King. Allo stesso titolo Raboni è e sarà parte della comunità dei cittadini milanesi e italiani, e della comunità culturale d'Europa, come poeta e come personalità di alto impegno civile e morale. In particolare la sua figura deve essere di riferimento per una Milano che voglia riconquistare la sua dignità di capitale morale e di medaglia d'oro della Resistenza, dopo aver toccato il fondo della deriva mercantile che l'ha degradata a città da bere, eccellente per il flusso di danè e fanalino di coda europeo per tasso di cultura.

Il lettore mi perdonerà il tono personale di questo scritto, ma ho voluto lasciare ad altri più titolati di me il compito di parlare dell'opera poetica, letteraria, di critico e di traduttore di Giovanni Raboni, io con le mie parole spero solo di contribuire a fare si che i suoi libri entrino fra le letture fondanti dei cittadini di questo paese.

Moni Ovadia – L'UNITA' – 18/09/2004


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