La
congiuntura che il vespaio mediorientale sta attraversando negli
ultimi giorni è davvero singolare. La temperatura della
travagliata regione ha preso a dipendere da una variabile non
direttamente politica: la malattia di Arafat.
L'anziano
presidente dell'Autorità palestinese è stato colto
da una grave malattia e necessita di urgenti cure all'estero.
Le
posizioni del governo israeliano e del suo intransigente leader
nei confronti del rais palestinese si sono subito ammorbidite non
solo per ragioni umanitarie, ma piuttosto per ragioni varie di
opportunità legate all'immagine e alla politica.
La
malattia, in una simile circostanza, assume un ruolo inaspettato
eppure ovvio, rivela la malinconica e commovente finitezza
dell'essere umano, di qualsiasi essere umano. Quando poi
mostra la fragilità di un mito, destabilizza le certezze e
le rigidità mentali. Se il parametro della malattia come
cartina al tornasole dell'intima natura umana entrasse nel
repertorio della consapevolezza politica, l'umanità si
eviterebbe un mare di guai.
Eroe
per il suo popolo, ambiguo terrorista per la destra israeliana,
premio Nobel per la pace nel corso di una troppo breve stagione,
uomo politico gravato di molti errori e strumentalizzato dai
molti "amici", il vecchio guerrigliero rimane l'uomo
che, con la sua figura più di ogni altro, ha dato identità
e dignità alla vessata diaspora palestinese. Oggi,
attraverso la malattia, riusciamo a vederne la fibra umana al di
là dei giudizi politici.
Il
combattente aveva già deposto il suo piglio eroico quando,
dopo l'assassinio di Rabin, aveva fatto visita alla famiglia del
primo ministro israeliano e di fronte alla maestà del
lutto aveva mostrato il suo cranio pelato di solito accuratamente
coperto dalla baldanzosa kefiah o dal cappello cilindrico con
visiera alla maniera di un altro mitico guerrigliero, Fidel
Castro. In quella circostanza, il mito si era smontato da sé,
rivelando senza pudore che sotto la dura scorza del capo popolo,
c'è un uomo pingue di mezza età afflitto da
un'indecorosa calvizie come un qualsivoglia piccolo borghese.
In
seguito, persa la chance di Oslo, incapace di rischiare Camp
David e Taba, si era fatto sedurre nuovamente dall'opzione
militare. La scelta si è rivelata infausta e poco convinta
se la giudichiamo attraverso la griglia delle patologie
psicosomatiche. Il corpo di Arafat ha reagito con un furioso
tremito del labbro inferiore e uno sguardo vitreo, certo
enfatizzato dalle dure condizioni imposte dall'assedio
israeliano. Il rais forse avrebbe dovuto ascoltare con maggiore
attenzione il doloroso segnale rappresentato dalla morte per
infarto immediatamente dopo lo scoppio della seconda intifada del
suo compagno Feisal Husseini, grande uomo della trattativa.
Oggi
la sua ultima malattia ce lo fa apparire come un povero
pensionato delle nostre periferie per cui si è liberato un
posto in ospedale, con un buffo cappellino di lana e un sorriso
infantile. Verosimilmente è la risposta fisiologica alla
"malattia" politica di un altro vecchio, il suo
irriducibile nemico Ariel Sharon. Arik il duro, il militarista ha
finalmente infranto un proprio tabù, ha cominciato ad
imboccare la via del pragmatismo contro la deriva del fanatismo.
Speriamo che la "patologia" estenda i suoi benefici
effetti fino a fargli capire che ci si può e ci si deve
ritirare da tutti i territori occupati nel '67.
La
piena salute e l'integrità delle forze ha decisamente mal
guidato i due vecchi combattenti, auguriamoci che la "malattia",
se non proprio alla pace, li porti almeno a sminare il campo per
prepararlo a una nuova semina. Solo così le vittime
innocenti del terrorismo da una parte e le vittime innocenti
delle rappresaglie militari, dell'occupazione e della
colonizzazione dall'altra, potranno finalmente riposare in pace.
Moni
Ovadia IL SECOLO XIX 30/10/2004
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