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Moni Ovadia

Stelle rosse a Trieste

Trieste è una città con la quale ho un legame speciale, triestini sono stati e sono infatti alcuni compagni di strada e maestri che hanno influenzato il mio percorso artistico. L'identità mitteleuropea e l'impronta ebraica ne hanno fatto un luogo ideale per i miei vagabondaggi culturali. Per questa città passai e sostai con la mia famiglia piccolo profugo che ignaro di orrori e terrori, sfuggiva dalla bella Bulgaria soggiogata dal sinistro tallone di ferro dello stalinismo. La mia scelta di intraprendere una rigorosa terapia psicoanalitica, non è estranea a iridescenze triestine difficilmente traducibili in parole; la capitale giuliana è stata la patria della psicoanalisi italiana, al suo ebraismo e al suo humus cosmopolita del sì, del da e dello ja, fertilizzato da geniali psicopatologie da labilità confinaria, ho dedicato un intero spettacolo. Il pubblico dei suoi teatri è stato per me fra i più complici, grazie alla sua generosità ho potuto percepire risonanze profonde del cammino che ho scelto di intraprendere. Per qualche ragione del sentimento sono legato a Trieste da un'attrazione fatale e negli ultimi tempi sono anche diventato il direttore artistico del più importante Festival della sua regione. Questa settimana il caso mi ha portato qui in un momento particolare. Trieste celebra il giorno del ricordo in memoria delle vittime che patirono l'orrore delle foibe e l'esilio dalle loro case, il calvario degli italiani d'Istria e di Dalmazia. Le celebrazioni ufficiali le guardo in televisione, mi toccano le riprese dei volti segnati dal tempo di coloro che patirono l'odio la violenza e il disprezzo, il loro pianto e la voce che si rompe nel rammemorare, parla dell'universale umano. I discorsi ufficiali invece mi mettono a disagio, stento a riconoscere a certi politici, i titoli per parlare di sofferenze derivate da persecuzioni, politici che glorificano la memoria di Salò, che chiamano gli omosessuali culattoni.

Mentre retorica e strumentalizzazione hanno il loro momento di gloria, sul palcoscenico del Politeama Rossetti, con la mia compagnia, rappresento uno spettacolo sulla rivoluzione bolscevica tratto dal capolavoro di Isaac Babel “L'Armata a Cavallo”. Babel fu incarcerato alla Lubianka - il famigerato carcere moscovita dello NKVD (futuro KGB ) - nel 1941 con una falsa accusa e dopo un processo farsa, fucilato. Combattente al seguito della Cavalleria Rossa dei cosacchi del Generale Budjonni, nel suo magistrale romanzo di racconti ambientati sul fronte polacco della guerra civile, Babel ci ha donato l'affresco epico e lirico di un'umanità autentica con tutte le sue lacerazioni, travolta dal vento di una grande utopia che finirà per tradire se stessa. Lo spettacolo, così come il libro, è tutt'altro che celebrativo, ciò nondimeno gli interpreti indossano costumi ispirati alle divise sovietiche e sulle tipiche budionnovke - i copricapo dei cavalleggeri sovietici - campeggia in evidenza la stella rossa e nei filmati dello spettacolo ed in scena sventolano gagliarde bandiere rosse. La rappresentazione si chiude con la morte della rivoluzione incarnata da una ballerina con il tutù carminio e del soldato rosso Brazlavskij figlio ribelle di un grande rabbino, nella cui bisaccia di rivoluzionario si confondono i ritratti di Lenin e di Maimonide, i filatteri di preghiera e le cartucce di rivoltella, le pagine del Cantico dei Cantici e le risoluzioni del partito. Il pubblico che ha seguito con grande tensione, applaude insieme con calore e con ritegno. Ciò che vorrei forse dire agli spettatori e che non mi è consentito per ragioni deontologiche, lo dico qui ai miei pazienti lettori: sì! la bandiera rossa con falce e martello ha sventolato sulla vergogna dei gulag, è vero com'è vero che è stata simbolo di oppressione nei paesi del socialismo reale, ma per milioni di lavoratori e per milioni di oppressi è stata anche simbolo di libertà. Ha guidato l'emancipazione degli operai e dei contadini dalla brutalità inaudita dello sfruttamento più bestiale quando il capitalismo trovava giusto fare lavorare dei fanciulli per quindici ore nelle miniere! Quella bandiera è stata innalzata dai popoli massacrati dal colonialismo, ha guidato la resistenza democratica contro il nazifascismo il cui stendardo nero è stato solo simbolo di morte, razzismo, odio e terrore.

Dunque, se è giusto denunciare gli orrori consumati dietro il paravento della bandiera rossa, è altrettanto giusto onorarne gli ideali e i valori che accomunarono le forze democratiche del comunismo e del socialismo in ogni angolo del pianeta.

Anche in questo caso sarebbe sciagurato occultare una parte della verità.

Moni Ovadia – L'UNITA' – 12/02/2005


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