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La mia cassetta di posta elettronica riceve quotidianamente, veicolate dalle più diverse provenienze, appelli e messaggi, opinioni e analisi più o meno articolate degli avvenimenti di attualità più importanti. Di questi tempi l'agenda è occupata soprattutto dall'incandescente questione del conflitto israelo-palestinese. Ieri scaricando l'email ho ricevuto un messaggio che lanciava un monito allarmato sul probabile risorgere dell'antisemitismo scatenato dal prolungarsi delle operazioni militari lanciate da Sharon contro il terrorismo, operazioni che di fatto stanno procurando al lungamente vessato popolo palestinese grandi sofferenze. Come poteva essere altrimenti visto che la tragedia di Ramallah sta diventando un test decisivo per la politica estera dell'unica iperpotenza rimasta? Come ha osservato Micheal Mandelbaum della scuola di relazioni internazionali della John's Hopkins University, questo è infatti un drammatico, ma, è sperabile, salutare, bagno di realismo per una Casa Bianca i cui inquilini danno a tratti l'impressione di dover ancora imparare a considerare in tutta la sua complessità lo scacchiere mondiale. Che, come da tante parti si sente ripetere da mesi, è invece difficilmente riducibile a formule dicotomiche, modellate sull'esperienza vittoriosa, ma decisamente peculiare, della guerra fredda. Formule che per la verità, nella riproposizione della questione dell'asse del male come fenomeno astorico e trascendente, non hanno mancato di riecheggiare anche nel discorso di sabato. Guardare alla complessità dei singoli fenomeni con una strategia capace di accettare le sfide di lunghe ed estenuanti trattative, tenendosi saldamente al riparo da scorciatoie ideologiche che pretendono di spiegare tutto e subito, è un passaggio che pare ineludibile per la politica estera Usa. Quest'ultima ha bisogno di visione, come quella dimostrata da Bush coll'energico discorso di giovedì sera, ma va sostanziata, come dice giustamente William Pfaff dell'Internacional Herald Tribune, con una presa d'atto delle ragioni profonde, storiche, culturali e civili, che stanno alla base dei fenomeni, e delle responsabilità, spesso difficili da ammettere, che le precedenti politiche del blocco occidentale hanno avuto nella determinazione degli assetti attuali in Medio-Oriente. Non meno importante è il fatto che la catastrofe israeliano-palestinese riporta sulla scena le tensioni interne all'amministrazione Bush; tensioni tra la moderazioni del dipartimento di Stato e l'oltranzismo unilateralista del Pentagono e di parte della Casa Bianca stessa come il vicepresidente Cheney; tensioni che hanno paralizzato l'iniziativa Usa sino a giovedì scorso. E' auspicabile per tutti che la missione impossibile del segretario di Stato Colin Powell non significhi la chiusura della partita a favore dei secondi, cioè di un'America che pensa di essere Sparta o addirittura Roma e si rinchiude nella sua fortezza o assume il ruolo del supervisore adulto di un mondo irragionevole e indisciplinato, ma anzi dia il segnale di una coraggiosa vocazione ateniese al dialogo e alla concertazione, sempre e comunque. Moni Ovadia IL SECOLO XIX 08/04/2002 |
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