Il grande Sinedrio,
il tribunale di Israele nell'epoca biblica, aveva fra le sue
prerogative la potestà di emettere una condanna a morte.
Tuttavia se, nel tempo della sua durata in carica, avesse scelto
di emettere anche solo una sentenza capitale, il popolo avrebbe
potuto scendere nelle strade e chiedere l'immediato scioglimento
dell'alto tribunale al grido di: Sinedrio assassino!. La
legislazione biblica spesso, ad una prima e frettolosa lettura
che accoglie un'interpretazione letterale del testo sacro, appare
in contraddizione con i propri enunciati ma il Legislatore, nella
sua previdenza, ha messo a disposizione dei giudici di fianco
alla legge scritta, l'acuto e lungimirante strumento della legge
orale che consiste di più livelli ermeneutici. La
Torah con questa antinomia ci segnala che alcuni crimini sono
così atroci da collocarsi in sé nel dominio della
morte ma al tempo stesso suggerisce un fatto incontestabile:
nessuno può mettere a morte un essere umano senza divenire
per ciò stesso, illico et immediate, un assassino. Tanto
più un giudice che è preposto ad applicare la legge
in un contesto morale. L'ebraismo infatti non concepisce la
separazione di jus ed ethos. La giustizia deve essere giusta e
non solo tecnicamente corretta. Questo approccio porta a
concludere che la pena di morte è una forma legale ma
criminale di omicidio. Ma c'è di più. I
sostenitori della pena di morte pretendono di applicare una
giustizia estrema per risarcire la vittima con una sorta di legge
del taglione e i suoi congiunti con l'intima soddisfazione della
vendetta. Ora, la vittima non può essere in alcun modo
risarcita perché non è in grado di percepire né
il risarcimento, né i suoi effetti. Quanto ai
familiari perdono per sempre la possibilità di trarre
senso dalla morte del loro caro che potrebbero forse ritrovare
attraverso un processo di ritorno alla dignità
dell'omicida, nel corso di una lunga pena detentiva e della vita
residua. Con la pena di morte, la perdita di una vita trascina
con sé la perdita di una seconda vita per offrire la
frustrante consolazione della vendetta, una spirale perversa che
intossica il futuro. Ma se può essere comprensibile il
sentimento di vendetta in un parente accecato dalla potenza del
dolore, è raccapricciante la sola idea che lo Stato si
legittimi come carnefice a freddo. Il racconto della Genesi
ci ricorda che il Santo Benedetto sceglie di non mettere a morte
Caino per l'assassinio del fratello Abele e ammonisce l'umanità
ad astenersi dall'alzare la mano sul fratricida per non incorrere
sette volte nella punizione. Caino rappresenta l'umanità
che non riesce a contenere la violenza, ma che deve continuare a
vivere per imparare un'altra modalità relazionale con il
proprio simile: la fraternità solidale. La pena di morte
contrasta con questo progetto e cancella l'idea stessa di
redenzione. Dice il Talmud: Chi salva una vita salva
l'universo intero e il Corano gli fa eco: Chi uccide
una vita uccide la vita. Il significato autentico di
queste parole è stato di recente illuminato dalla notizia
riportata in questi giorni dalla stampa, che un cittadino
statunitense è stato messo a morte legalmente
pur essendo quasi certamente innocente. L'uomo era stato
incastrato ad arte da qualche sottospecie di Quinlan di
provincia. Se seguissimo la logica degli assetati di una
giustizia assassina, ora, per coerenza, si dovrebbero condannare
a morte gli inquisitori, quei giurati che hanno emesso la
sentenza e non hanno ascoltato la voce del dubbio, il giudice che
l'ha accolta, il governatore dello stato che l'ha permessa e, per
complicità morale, tutti coloro che provano un'intima
soddisfazione nel vedere messo a morte un uomo. Nessuna
persona decente si augurerebbe nulla di simile perché ciò
a cui aspira, è solo la scomparsa di quella vergogna dagli
orizzonti della giustizia umana.
Moni Ovadia LUNITA
26/11/2005
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