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Moni Ovadia

Italia, il palcoscenico del Nordest

La prassi quotidiana del palcoscenico mi pone di fronte ad esperienze che vanno ben oltre il mestiere dello spettacolo e mi ha offerto insegnamenti preziosi riguardo ai comportamenti emozionali delle piccole collettività, come quelle formate dagli spettatori di una serata. Mi è capitato di recitare lo stesso spettacolo nello stesso teatro della stessa città, in diverse sere e di riscontrare da parte dei pubblici presenti reazioni diversissime, talora diametralmente opposte. La natura di questo fenomeno, verificato «sperimentalmente» nel corso di molti anni, ha aspetti misteriosi, ma non è del tutto oscura. I pubblici degli abbonati, che arrivano compatti nelle prime due sere, sono tendenzialmente poco reattivi, praticano una routine e subiscono alcuni spettacoli per avere la possibilità di accedere a quelli che hanno scelto. Gli attori, fragili per vocazione, davanti all'accoglienza fredda di quel pubblico, non possono trattenersi dal pensare che forse lo spettacolo abbia dei problemi. Poi, da che alla terza sera, fa il suo ingresso in teatro il pubblico che ha scelto proprio il tuo spettacolo pagando il biglietto per esso e lo stesso spettacolo riceve un'accoglienza entusiastica, i teatranti placano i propri travagli con la constatazione che forse, i problemi ce li ha una parte del pubblico e non necessariamente la rappresentazione. Questa considerazione mi è stata suggerita da un fondo apparso sul Corsera di giovedì 14 aprile a firma del prof. Angelo Panebianco. Il noto opinionista per commentare la risicata ma concreta vittoria del centro-sinistra, sceglie di analizzare la sconfitta del centro sinistra in quel Nord dove albergano i ceti più produttivi del Belpaese. La sua analisi lo porta a concludere che l'Unione, gravata da una aumentata presenza della sinistra «radicale», sarebbe strutturalmente inadeguata a comunicare con quei ceti e quindi inadatta a governare.
Lo stesso giorno, sul quotidiano Repubblica, Timothy Garton Ash, acuto osservatore inglese delle nostre vicende, commentando le elezioni guarda alla attuale crisi del nostro paese e analizza con indicatori e dati incontrovertibili la catastrofe prodotta da cinque anni di governo Berlusconi, facendoci capire che questo centro-destra è stato e rimane il vero problema del sistema paese. Ma, anche se condivido la visione dell'opinionista britannico, trovo che il prof. Panebianco ponga un problema reale e cruciale. I ceti produttivi del Nord ed in particolare del Nord-est nella stragrande maggioranza non si fidano del centro-sinistra. Ma è così certo che la colpa sia proprio del centro-sinistra?
Personalmente non ne sono convinto. Il mio dubbio tuttavia non dipende dalla condivisione degli stereotipi di sinistra stigmatizzati da Panebianco che vedrebbero una presunta inferiorità antropologica e morale di quel Nord-Nordest, ma piuttosto dalla constatazione dell'incapacità di quei ceti, definiti il cuore trainante dell'economia nazionale, di esprimere politicamente un centro conservatore degno di una democrazia moderna. Questa superproduttiva Italia, viziata da un ventennio di vacche grasse, ovvero da una «disinvoltura fiscale» ignota al resto dell'Occidente liberale, e dalla vacanza di Cina e India quali protagonisti del mercato globale, invece di esprimere lungimiranza politico-economica preferisce affidarsi all'armata brancaleone di Berlusconi malgrado il clamoroso fallimento della sua millantata «rivoluzione liberale», sostenuta a parole per cercare di legittimare un peronismo mediatico alleato del cattolicume più reazionario indegno della tradizione cattolico democratica, del localismo xenofobo e dei residui di ex fascismo mal digerito. Forse questi famosi ceti produttivi trarrebbero maggior vantaggio cessando di reagire alla sola parola «sinistra» come tori davanti al drappo rosso e aprendosi ad un dialogo franco con il centro-sinistra, come hanno fatto con eccellenti risultati gli stessi ceti produttivi della prospera Emilia-Romagna. Non mi è dato sapere se il professor Panebianco vada abitualmente a teatro, ma se per caso gli capitasse di assistere allo stesso spettacolo con due pubblici diversi, uno di abbonati routinier e l'altro con spettatori a sbigliettamento, avrebbe modo di constatare che il successo o l'insuccesso di uno spettacolo non dipende necessariamente dall'opera rappresentata o dalla compagnia, ma può dipendere anche dall'atteggiamento conformista del pubblico.


Mino Ovadia – L'UNITA' – 15/04/2006


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