La parola strategia
nella nostra cultura è da sempre legata alla conduzione di
una guerra, all'uso di tattiche belliche e di organizzazione
logistico-militare atta ad ottenere la vittoria su forze ostili.
Per studiare, elaborare e rendere operative tattiche e strategie
in vista di guerre in atto, vicine o anche possibili in un pur
lontanissimo orizzonte si fanno investimenti astronomici. Alcuni
paesi spendono una percentuale altissima del proprio budget per
gli armamenti e per tutte le infrastrutture necessarie a porre in
stato di attesa o di attività detti armamenti. Lo stato di
Israele è uno dei paesi al mondo che più investe in
spese militari. Una scelta così gravosa per l'economia del
piccolo paese è dettata dalla necessità di
garantire la propria sicurezza e persino l'esistenza stessa.
Israele è l'unico paese al mondo, per quanto sia a mia
conoscenza, il cui diritto ad esistere in quanto entità
nazionale sul proprio territorio, venga messo in discussione o
addirittura negato da alcuni paesi vicini, da gruppi e singoli
individui non solo nel mondo arabo e islamico, ma anche in Europa
e in altre parti del mondo. Negli ultimi tempi poi, da quando il
presidente dell'Iran Ahmadinejiad ha rilanciato la farneticante
ipotesi della cancellazione di Israele dalla carta geografica,
come se fosse un tema serio della sua agenda politica, la
questione del diritto all'esistenza, ormai narcotizzata dagli
avvenimenti dell'ultimo ventennio ed entrata nel repertorio del
trovarobato arrugginito di un'altra epoca è stato
riportata a nuovo splendore. Personalmente non ritengo
Ahmadinejiad il nuovo Hitler e penso che il tormentone contro
l'esistenza dello stato ebraico sia uno strumento di diversione
per stornare l'attenzione dai suoi fallimenti nella politica
interna e conquistare il centro della scena internazionale. Ma è
difficile per molti israeliani ragionare a freddo su un tale
argomento. La maggioranza degli israeliani vede la capacità
di dissuasione militare come principale strumento di sicurezza.
Ciò determina l'influenza decisiva dell'estabilishment
militare su tutte le scelte del paese. Per questa ragione
l'investimento sulle strategie di pace è quasi sempre
stato minimo da parte di quasi tutta la classe dirigente
israeliana, con rare eccezioni fra cui brillano quella di Rabin
con tutta la squadra dei negoziatori di Oslo e quella dei
coraggiosi della «pace di Ginevra» straordinaria,
autentica proposta di un accordo definitivo fra palestinesi ed
israeliani elaborata da uomini dell'opposizione e lasciata cadere
dai governanti. L'ultima spaventosa guerra del Libano mostra che
l'opzione militare è un cul de sac. Come acutamente
spiega in un suo commento sul Corriere della Sera George Soros è
arrivata l'ora di cambiare logica, di orientare gli investimenti
verso la costruzione della pace e di abbandonare il disperato
abbraccio con questa amministrazione statunitense e i suoi
interessi. Ciò significa innanzitutto pensare in termini
diversi al fine di attivare tutti i canali possibili per
costruire occasioni di incontro, ma significa innanzitutto
prosciugare la palude dell'odio riconoscendo che i cosiddetti
danni collaterali oggi sono il vero effetto dell'uso
indiscriminato della forza. L'investimento sulle strategie di
pace richiede scelte precise basate su iniziative proprie e non
solo in risposta. La guerra ha dei costi spaventosi ingiusti che
stranamente vengono accettati come se fossero inevitabili, i
costi della pace vengono trattati come spreco: è questa la
perversione della realpolitik. Le vittime delle guerre odierne
sono quasi esclusivamente civili: questo è l'orrore! Il
nostro problema è che oramai riusciamo a guardare il volto
della Medusa senza rimanere pietrificati, anzi troviamo quel
volto contemplabile. Il popolo palestinese vive oramai in
condizioni che fanno apparire una beffa le parole giustizia,
diritti, legalità internazionale. Ma davvero qualcuno
pensa che Israele possa conquistare la sua sacrosanta sicurezza
mettendovi a custode la sofferenza e l'umiliazione dei suoi
sempre più abbandonati vicini? A casa nostra nel frattempo
importanti uomini di penna del buon senso conservatore non
trovano di meglio per esercitare la loro nobile arte che demolire
i costruttori di pace per i loro errori. Certo noi che ci
battiamo per i valori della pace possiamo avere dei torti, ma da
millenni l'umanità viene scannata, dissanguata, sbranata,
depredata, affamata, sottomessa, derisa non dai «torti»
della pace, ma dalle ragioni della guerra.
Moni Ovadia L'UNITA' -
02/09/2006
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