Leco
dell'accorato discorso tenuto da David Grossman in occasione
dell'undicesimo anniversario della morte di Rabin non si era
ancora spento che, in risposta a quelle toccanti parole, sono
risuonati i colpi degli obici 155 sparati dai tank dell'esercito
israeliano facendo una strage di civili, soprattutto donne e
bambini. Il risultato della rapida inchiesta eseguita dagli
inquirenti nominati dal ministro della difesa Peretz è:
errore tecnico. Le prime parole pronunciate dai leader della
politica israeliana, il primo ministro Olmert e il ministro degli
Esteri Livni sono state rammarico, imbarazzo, rincrescimento.
Ieri, in un'intervista concessa al Corriere della Sera, il signor
Olmert ha virato verso parole più forti come rimorso e si
è detto pronto a incontrare, senza condizioni preliminari,
il presidente palestinese Abu Mazen per proporgli inimmaginabili
concessioni. A rischio di essere annoverato fra coloro che
pensano male, ho l'impressione che la buona volontà di
Olmert sia dovuta più al risultato delle recentissime
elezioni statunitensi che alla tragedia dei palestinesi in sé.
La cooptazione nel governo di un pericoloso razzista come
Lieberman non depone certo a favore dei suoi buoni sentimenti nei
riguardi del popolo palestinese. Ma qualora mi sbagliassi e la
qualità delle concessioni fosse tale da portare con sé
la fine dell'occupazione e delle violenze, sarei felice di
scusarmi per la mia malevolenza. Nel frattempo come ci si pone di
fronte a questa spaventosa tragedia? A mio parere è bene
tenere fermo il rigore per non abbandonarsi alle pur
comprensibili reazioni viscerali ma, simultaneamente, anche il
coraggio di parlare con schiettezza e senza censure preventive. A
dispetto di coloro che mi ritengono un ebreo «antisemita»,
non penso che i soldati Tsahal sparino deliberatamente su donne e
bambini, ma trovo inaccettabile rubricare la strage di Beit Hanun
come errore tecnico. Quell'orrore è il risultato di una
politica sbagliata ed ingiusta, figlia di una visione
pietrificata partorita dalla protervia militarista. Le
ragioni di Israele sono note: Hamas non riconosce il nostro
diritto all'esistenza, ci siamo ritirati da Gaza e da quando lo
abbiamo fatto, ogni giorno proprio da lì, piovono sul
nostro territorio missili Quassam, rudimentali ma pur sempre
missili, dobbiamo difendere la nostra popolazione, è
nostro pieno diritto. Queste argomentazioni appaiono
«tecnicamente» legittime in sé perché
sono pervicacemente estrapolate dal nucleo incandescente della
questione e il nucleo è questo: Israele occupa le terre di
un altro popolo da quarant'anni, riduce quella gente in stato di
prigionia, ne demolisce le fondamenta economiche, cambia la
topografia dei suoi paesaggi a proprio esclusivo arbitrio,
sradica i suoi ulivi secolari, ne demolisce le case per
espellerli dai propri luoghi, ne controlla la vita, cerca di
cancellare un'identità con un muro che non separa
palestinesi da israeliani, ma soprattutto palestinesi da
palestinesi, rendendo la loro vita un calvario e come se non
bastasse arriva a contigentarne l'acqua mentre la elargisce a
profusione ai suoi illegittimi coloni che annaffiano fiori e
riempiono piscine nei loro resort presidiati a 150 metri di
distanza. Qualcuno dei sedicenti amici di Israele riesce a
spiegarci cosa c'entra questa vigliaccheria con la sicurezza di
Israele? La sicurezza e la difesa di Israele e dei suoi cittadini
sono sacrosante e non negoziabili, ma avranno piena e
indiscutibile legittimità solo quando le farà
valere entro i confini riconosciuti dal diritto internazionale e
dalla comunità degli stati. Questo confine si chiama green
line. Su quella linea, se lo ritenesse, Israele avrebbe pieno
titolo a costruire un muro e a presidiarlo militarmente per
respingere gli attacchi qualora vi fossero. E la dirigenza
palestinese, solo se insediata in un vero stato, potrebbe
finalmente assumersi una piena responsabilità, cosa che
non può essere chiesta a chi vive sotto occupazione in un
simil-apartheid.
Moni Ovadia L'UNITA'
11/11/2006
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