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L'UNITA' 12/01/2002 |
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Il tricolore adottivo e le mondine |
La città di Reggio Emilia ha avuto il privilegio di dare i natali alla bandiera tricolore simbolo dell'unità nazionale e quest'anno il 7 gennaio ricorrevano i 250 anni dall'assunzione del nostro futuro stendardo nazionale come insegna della Repubblica Cispadana. Il comune di Reggio Emilia in quest'occasione ha proposto a me di celebrare l'evento per gli studenti delle scuole superiori. Di primo acchito la proposta mi ha lusingato, ma al tempo stesso mi ha lasciato perplesso. Perché scegliere per una simile ricorrenza un ebreo bulgaro, che ha dedicato le proprie attività culturali al mondo della yiddishkeit, un mondo lontano dalle tradizioni patrie? Perché affidare ad un italiano anomalo che ha una ripulsa apertamente confessata per ogni nazionalismo ed una passione etica per la condizione di straniero, il compito di ricordare una bandiera che anche nelle migliori intenzioni è portatrice di sentimenti retorici? Dopo aver riflettuto per qualche ora ho tuttavia deciso di accettare. Ho considerato che io sono italiano, la mia lingua madre adottiva è l'italiano e comunque anche se conosco più lingue, di lingua madre non ne ho un'altra. La calata del mio eloquio è pesantemente meneghina, Dall'età di quattro anni sono cresciuto in Italia, la mia Heimat, il focolare nel quale ho vissuto la mia formazione e la mia crescita di cittadino e di essere umano è questo paese. D'accordo, sono un italiano anomalo, sono un italiano straniero, antinazionalista, ma pur sempre un italiano che ama la propria casa adottiva. Per me non è stato facile diventare italiano, un passaporto garantiva il mio status burocratico, ma nulla nella mia famiglia di ebrei sefarditi coincideva con quello status. Dalla Bulgaria noi Ovadia, profughi, siamo arrivati a Milano. Fu un magico viaggio musicale. Ancora adolescente con i sensi aperti ed un'autentica brama di conoscere ascoltai a casa di un insegnante due leggendari dischi a cura del grande etnomusicologo statunitense Alan Lomax che accompagnato dai colleghi italiani Carpitelli e Leydi aveva raccolto musiche e canzoni tradizionali di ogni angolo della penisola. Rimasi folgorato. L'Italia usciva dall'astratta e schematica definizione dei compendi scolastici, si staccava dalle tronfie celebrazioni di guerre e vittorie. Prendeva forma nelle mie orecchie e nel mio cuore l'Italia delle genti, un'Italia bassa, vera, epica, un'Italia di pastori, contadini, pescatori, marinai, artigiani, carrettieri, emigranti. Il grande popolo degli umili con le sue storie, le sue feste, con il coraggio, con le sofferenze e la gioia, con la religiosità e le insopprimibili lotte per libertà e dignità. Con me sul palcoscenico il sette gennaio c'era un coro di Mondine, lavoratrici delle risaie che hanno conosciuto il lavoro più duro e lo sfruttamento più feroce, senza cedere all'abbrutimento, al contrario hanno saputo creare una cultura straordinaria, organizzazioni sindacali e malgrado le durissime condizioni della loro esistenza hanno saputo cantare anche la passione per la vita e per l'amore. Oggi sono anziane signore la cui età va dai settantadue agli ottantasette anni, ma nelle camicette rosse della loro divisa di coro queste ragazze hanno una gagliardia da fare invidia a tanti giovani rinunciatari. Le Italie sono tante e ciascuna ha la propria dignità, ma è l'Italia di queste mondine che mi fa sentire questo paese il mio paese. Moni Ovadia L'UNITA' 12/01/2002 |
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