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Mussulmani ad Auschwitz |
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Quante volte ci capita di pronunciare una parola senza chiederci quale ne sia il significato originario o la radice semantica? Accade il più delle volte, per convenzione, per fretta di comunicare, per pigrizia, per conformismo o perché la conoscenza del senso, implica un'assunzione di responsabilità che è sempre una rimessa in questione di noi stessi e dei nostri pregiudizi. Chi sa che mussulmano significa pacifico? Oppure quanti di noi sanno che nel linguaggio dell'universo concentrazionario nazista veniva indicato come mussulmano l'internato che si lasciava andare alla deriva diventando inerte e patologicamente indifferente rispetto al proprio destino e a tutto ciò che gli accadeva intorno. La scelta del termine, rivela l'elezione di uno stereotipo sprezzante riferito ad una vastissima e variegata categoria di esseri umani marchiati con il tratto della rassegnazione. Circa tre settimane fa, alcuni quotidiani hanno dato l'insolita notizia che un gruppo di mussulmani si è recato in visita ad Auschwitz. Non sono discendenti di quei mussulmani che scelsero una loro ingiudicabile via per reagire alla brutalità iperbolica degli aguzzini, ma palestinesi, cittadini dello stato d'Israele, che hanno voluto recarsi in quei luoghi dell'inferno creato sulla terra da uomini per i propri simili, insieme ad ebrei israeliani per condividere un'esperienza di vita, di pensiero e di sentimento. Ci sono andati insieme per capire e per capirsi. Il promotore e coordinatore di questa iniziativa, è un sacerdote cattolico al quale mi sembra doveroso fare tanto di cappello. Una giornalista israeliana mi ha riferito di episodi di profonda commozione. Una donna ebrea che ha perduto il padre nelle camere a gas e un figlio nel conflitto arabo israeliano, si è raccolta in preghiera comune con un palestinese mussulmano. Altri hanno pianto l'uno nelle braccia dell'altro. Questo evento lungi dall'appartenere al campo della facile retorica, si colloca nel solco della grande semina della piccola pace, quella dei cuori, delle menti, delle anime. La pace degli ostinati che si rifiutano di farsi trascinare nelle ragioni del conflitto, la pace di coloro che assumono la responsabilità del volto altrui, anche di quello del nemico riconoscendone la piena dignità umana. Ciò non significa rinunciare alle proprie opinioni politiche né omologare le ragioni e i torti o dimenticare le ferite inferte oggi a favore dei dolori del passato, significa piuttosto ripudiare le perversioni ideologiche, le inique semplificazioni dei pareggiatori che con i loro paragoni capziosi, ignorano le specificità dei contesti, sfregiano l'etica del senso preoccupati manicheamente di stare dalla parte giusta per dormire sonni tranquilli. Fatte le debite differenze, sarebbe auspicabile che simili viaggi comuni venissero promossi nei tempi e nei luoghi più recenti, le Sabra e Shatila, il reclusorio di Gaza e i campi profughi palestinesi così come le discoteche, le vie e i centri commerciali dove il terrorismo e le armi hanno mietuto la loro messe sconcia di morti innocenti. Viaggiare insieme non per giudicare ma per capire, per sentirsi, per riconoscersi. Moni Ovadia L'UNITA' 21/06/2003 |
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