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Piero
Sansonetti |
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Il Wsf chiude con un grande ballo |
Alla fine si sono messi a
giocare, a ridere. E l'università di Porto Alegre si è
trasformata nella più grande balera mai vista al mondo. Nella
notte tra lunedì e martedì, gli operai avevano smontato
i pannelli che abitualmente dividono le sale, e avevano unificato le
quattro grandi aule (da tremila posti a sedere ciascuna) collegandole
tra loro e anche con l'atrio e il corridoio. Così si è
creato uno spazio immenso, unico, architettonicamente molto bello,
dove qualcosa come trentamila persone hanno iniziato a cantare e a
ballare. Un po' samba, un po' rock, un po' danze gauche. Un happening
in contrasto con la serietà dei cinque giorni precedenti -
giorni pensosi di studio e di strategie politiche - ma perfettamente
nello spirito giovanile e ottimista del popolo di Porto Alegre. Sul
palco ballavano anche i leader del movimento, i rappresentanti di
tutte le nazioni. Ballava persino Vittorio Agnoletto - per la prima
volta, forse nella sua vita, abbandonando la faccia seria e l'aspetto
da Arrigo Sacchi - e mentre ballava, tra passi leziosi e giravolte,
sventolava forsennatamente (ne avrà piacere Ciampi ) una
bandiera italiana sulla quale aveva scritto a pennarello uno slogan
contro la guerra.
Il Forum si è chiuso così, tra
risa e lacrime, all'una di ieri mattina. Naturalmente è
difficile farne un bilancio oggettivo, perché è
difficile vivere per una settimana nella bolgia dell'Università
Pontificia di Porto Alegre senza farsi contagiare dallo spirito di
questo nuovo «popolo ribelle». La suggestione delle loro
idee è molto forte, come è forte la carica di passione
politica - che da anni non si rintracciava più, in giro per il
mondo - ma soprattutto mi sembra molto forte, coerente, argomentata,
l'analisi dei mali che affliggono l'umanità, e delle cause di
questi mali. Cioè l'indicazione di quali sono le vittime e di
quali sono i carnefici, e la richiesta , a tutte le persone per bene
- ai partiti per bene, ai governi per bene, ai sindacati per bene,
alle Chiese - di non restare con le mani in mano a guardare i
carnefici in azione, sussurrando: «almeno in parte è
inevitabile». Il popolo di Porto Allegre dice che non è
inevitabile, dice che è impossibile non evitarlo, altrimenti è
un suicidio. E questa suggestione - se è solo una suggestione
- è la forza più grande del movimento. È quello
che gli consente di rivolgersi a un numero enorme di persone in giro
per il pianeta, e di farsi capire dalla parte più consistente
e lucida della nuova generazione.
I punti di forza
Quali
sono i punti di forza emersi da Porto Alegre? Sono tre.
Il primo
è la compattezza di un movimento che è giovane, ma non
più giovanissimo, e sembra immune dal morbo «divisionista»
che ha ucciso tante volte la sinistra negli ultimi due secoli. Questi
di Porto Alegre sanno discutere e dissentire in un modo nuovo. Cioè
concepiscono il dissenso come atto di libertà, non di rottura.
Il secondo punto di forza è la dimensione internazionale del
movimento. Possiamo anche dire «globale», perché è
così: è il più globale tra i movimenti politici
dell'ultimo mezzo secolo. Questo non vuol dire solo che è
vasto, che è forte. Vuol dire che è vario: riesce a
ragionare con molti punti di vista, cioè non ha addosso quel
terrificante provincialismo che, in forme diverse, travolge ormai
tutta la politica moderna, dall'America, alla Russia, ai paesi
europei. Il terzo punto di forza è la «macchina di
pensiero» che ha messo in moto. È veramente notevole. Su
un campo vastissimo di temi. L'economia e l'ecologia, in primo luogo,
in tutti i loro aspetti moderni. Ma anche la politica, la scienza, la
sociologia, l'urbanistica, la pedagogia, lo studio delle questioni
sindacali, delle relazioni tra donne e uomini, tra razze, e altro
ancora. Questo movimento schiera un numero considerevole di
intellettuali di grande prestigio, e soprattutto dimostra un amore
raro per la conoscenza e l'approfondimento dei problemi. È un
movimento politicamente molto colto, una specie di intellettuale di
massa che in passato si era visto raramente. Il sessantotto - per
esempio - fu un grande fenomeno culturale, di rottura, ma la fase
dell'elaborazione e la fase della lotta di massa - e i protagonisti
di queste due fasi - restarono sempre distinti. Non ho mai visto nel
'68 un'aula da tremila posti, piena per metà di maturi
intellettuali e per metà - mescolati - di ragazzini con le
treccine rasta e l'aspetto molto alternativo, ma col taccuino in
mano, la penna, e la capacità di prendere vorticosamente
appunti, per di più - spesso - ascoltando discorsi in lingue
straniere. Sta di fatto che su temi come il rapporto tra uomo e
natura, la questione dell'approvvigionamento e della distribuzione
delle risorse essenziali (cibo, acqua, aria...), il rapporto tra
concentrazione dei capitali e concentrazione del potere e del sapere
- per fare qualche esempio - è da questo movimento che si
ottengono gli studi e le idee più rigorosi ed avanzati.
Che
fare
C'è un punto debole. E cioè la mancata
risposta alla domanda: «che fare?». Lenin una novantina
d'anni fa rispose alla domanda proponendo la rivoluzione. Poi la fece
anche, la rivoluzione, e le cose non andarono benissimo. Questo
movimento invece non ha una teoria del domani e soprattutto non ha
una teoria del potere. Concepisce il suo futuro politico come un
lungo cammino su due rotaie: una di contestazione pura, che serva a
impedire lo sviluppo di quello che loro chiamano il disegno
neo-liberale, e cioè l'ulteriore concentrazione della
ricchezza in Occidente. Hanno avuto già dei risultati,
mettendo in difficoltà un organismo super-potente come il G8,
e tanti altri istituti - prima mai discussi - come la Banca mondiale,
il Fondo monetario, l'organizzazione del commercio. L'altra rotaia è
quella lungo la quale si costruiscono gradualmente politiche
alternative. Per esempio, riduzione e poi cancellazione del debito
dei paesi poveri, cosa che muterebbe profondamente il rapporto tra
Nord e Sud del mondo. Per esempio la lotta contro i brevetti troppo
esosi sulle medicine. Per esempio la Tobin Tax. Per esempio l'obbligo
per i paesi occidentali di destinare lo 0,7 del proprio prodotto
lordo al finanziamento dello sviluppo dei paesi poveri. Per esempio
la richiesta di cancellare trattati internazionali (commerciali) come
l'Alca o il Mai, che sono troppo vantaggiosi per l'occidente e
costosissimi per l'Africa e per l'America Latina. Cose piccole? Già,
però con il pregio di non essere utopiche, di essere concrete,
e anche di non essere poi così piccole e generiche se
confrontate con i programmi politici di tanti partiti
occidentali.
Dopo Porto Alegre la sinistra tradizionale dovrà
decidere più concretamente che nel passato come confrontarsi
con questa forza che sta crescendo. È un problema che prima
ancora dei partiti nazionali riguarda l'Internazionale socialista. Ci
vorrebbe un po' di coraggio. Almeno quanto ne ha mostrato il
segretario dell'Onu, Kofi Annan, che ieri ha parlato da New York, in
collegamento con Porto Alegre, e ha detto di essere d'accordo con
molte cose dette al Forum, e soprattutto che bisogna fare qualcosa
con molta urgenza, perché questo pianeta è come una
barca nella tempesta, guidata da pochi e con una folla enorme di
passeggeri in pericolo di vita. [...]
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