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Porto Alegre va a Johannesburg? |
Il prossimo autunno a
Johannesburg, in Sud Africa, i rappresentanti al massimo livello di
tutti i paesi del mondo si ritroveranno per dar vita alla Conferenza
delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo, dieci anni dopo Rio
de Janeiro. Fu, la conferenza brasiliana del 1992, una sorta di
assemblea costituente in cui le nazioni della Terra riconoscevano
l'esistenza di problemi globali urgenti e indicavano le strade da
battere per cercare di risolverli. Nacque allora a Rio l'idea - e
sarebbe dovuta nascere la prassi - dello sviluppo sostenibile. Di uno
sviluppo cioè che fosse nel medesimo tempo sostenibile per la
società umana e per l'ecologia planetaria. Infatti i problemi
globali urgenti, comuni a tutti i cittadini del pianeta, individuati
a Rio de Janeiro erano riconducibili a due tipologie: i problemi
della povertà e i problemi dell'ambiente. La conferenza
riconobbe che quei due tipi di problemi non ammettevano soluzioni
differenziate. Non si potevano risolvere i problemi della povertà
senza affrontare, contestualmente, i problemi ambientali. E non si
potevano risolvere i problemi ecologici senza aggredire,
contestualmente, i problemi della diseguaglianza sociale. Per
realizzare queste affermazioni di principio i rappresentanti di tutti
i paesi del mondo si diedero vari strumenti giuridici (Convenzione
sul Clima e sulla Biodiversità, Agenda 21) e precise scadenze.
A dieci anni da Rio, cosa ne è stato di quelle formali
promesse? Cosa ne è stato dello sviluppo sostenibile? Nel suo
annuale rapporto sullo stato del pianeta, il Worldwatch Institute di
Washington ha provato a tirare un primo bilancio. E, ahimé, si
tratta di un bilancio con pochissime luci e moltissime ombre. Una
luce brillante, sul piano ambientale, è stata la messa al
bando definitiva dei clorofluorocarburi, i responsabili del
cosiddetto "buco dell'ozono". Una luce intensa, sul piano
sociale, è stata la diminuzione in questo ultimo decennio
delle morti causate dalle "malattie dei poveri": come
diarrea, tubercolosi, polmoniti. Tuttavia le ombre sono molto più
numerose. A dieci anni da Rio, per esempio, le emissioni globali di
anidride carbonica sono aumentate del 9%, sebbene siano diminuite
nelle economie in transizione dell'ex Unione Sovietica e siano
diminuite (di oltre il 7% tra il 1995 e il 2000) nell'economia in
rapido sviluppo della Cina. Insomma, le emissioni sono aumentate
proprio nei paesi ricchi: nei paesi, cioè, che si erano
riconosciuti come responsabili di gran lunga principali del
cambiamento del clima globale e si erano, ufficialmente e persino
legalmente, impegnati a diminuirle.
Altre ombre non mancano,
sia a livello ambientale che a livello sociale. In questi dieci anni
nei grandi oceani le barriere coralline danneggiate sono passate dal
10% al 27%. Le morti per aids sono aumentate di ben sei volte,
concentrate soprattutto nell'Africa sub-sahariana. La spesa per gli
armamenti ha raggiunto e superato i 2 miliardi di euro (2.000
miliardi delle vecchie lire) per giorno. Le differenze di reddito tra
i paesi più ricchi e i paesi più poveri, invece di
ridursi, si sono ulteriormente allargate. La qualità della
vita è peggiorata in molti paesi: dalla Russia al Sud Africa,
dalla Romania al Kenya. L'elenco delle ombre potrebbe continuare a
lungo. Tuttavia due sono gli elementi che, forse, più di ogni
altro caratterizzano questo decennio. Entrambi politici. Uno con più
marcati connotati economici: in questi dieci anni che ci separano da
Rio il prodotto interno lordo del mondo è aumentato del 30%,
ma gli aiuti allo sviluppo sono diminuiti del 23%, passando da 69 a
53 miliardi di dollari. A Rio de Janeiro i paesi ricchi si erano
formalmente impegnati a raddoppiare gli aiuti allo sviluppo,
portandoli dall'allora 0,35% del prodotto interno lordo allo 0,70%.
Nella realtà nei dieci anni dopo Rio questo tasso di
solidarietà si è dimezzato, scendendo al di sotto dello
0,20%. Ancora: a Rio de Janeiro i paesi ricchi si erano impegnati a
ridurre il debito che stritola le economie e le società dei
paesi poveri. Al contrario, da allora il debito è cresciuto
del 34% e ha raggiunto la cifra, astronomica, di 2.500 miliardi di
dollari. Tanto che oggi gli interessi sul debito che il Terzo Mondo
paga al Primo Mondo sono superiori, ormai, agli aiuti allo sviluppo.
In pratica, c'è un flusso netto di risorse che ogni anno si
trasferisce dalle tasche dei poveri alle tasche, già
strapiene, dei ricchi. In definitiva, in questi dieci anni il mondo
ha fatto registrare una marcata crescita economica e persino qualche
progresso sia in campo ambientale che in campo sociale. Ma le
disuguaglianze economiche sono aumentate, i grandi problemi
ambientali si sono aggravati e la solidarietà internazionale è
crollata.
Questa è la realtà. Ma l'altro
elemento politico che ha caratterizzato il decennio del dopo Rio è
la crisi sostanziale della cultura ambientale. Infatti, scrive il
Worldwatch Institute, in questo decennio: «Le politiche
ecologiche sono rimaste a bassa priorità. Mentre il numero
crescente di trattati internazionali ambientali internazionali e
altre iniziative continuano a soffrire per la scarsa attenzione e
l'inadeguato finanziamento». In definitiva, l'idea dello
sviluppo sostenibile nato con una fragorosa esplosione a Rio de
Janeiro non è riuscita a diventare cultura egemone e incisiva.
Non è riuscita a diventare prassi. Con il risultato, sostiene
Christopher Flavin, che «malgrado la prosperità degli
anni '90, la forbice tra ricchi e poveri si è andata
allargando in molti paesi, minandone la stabilità sociale ed
economica. E la pressione sui sistemi naturali del mondo, dal
riscaldamento globale alla diminuzione e degradazione delle risorse,
come il pescato e l'acqua, ha ulteriormente destabilizzato le
società». In definitiva: «Dieci anni dopo Rio,
siamo ancora molto lontani dall'aver posto fine a quella marginalità
economica e ambientale che affligge miliardi di persone».
Duole
dirlo. Ma questa crisi della cultura ambientale che non riesce a
diventare pratica politica rischia di manifestarsi anche a Porto
Alegre. Dove l'attenzione è, giustamente, posta sui problemi
della guerra e della insostenibilità sociale del neoliberismo.
Un po' meno - e un po' meno giustamente - sui problemi dell'economia
ecologica. Certo, nella città brasiliana si parlerà
anche dei problemi ambientali globali, a cominciare dal cambiamento
del clima planetario. Tuttavia quello che stenta ad affermarsi anche
tra i partecipanti al "Global social forum" è la
consapevolezza che i problemi ambientali non sono solo problemi
prioritari, pari per dignità ai problemi sociali. Ma formano
con questi ultimi un tutt'uno che è impossibile districare.
Che non c'è possibilità alcuna di perseguire l'equità
sociale senza cercare e trovare la qualità ambientale.
Insomma, sembra che anche il "popolo di Seattle" faccia
fatica ad assimilare per davvero l'idea dello sviluppo sostenibile.
Se persino da Porto Alegre Rio de Janeiro e Johannesburg
appaiono lontane, allora la possibilità che il prossimo
"vertice della Terra" diventi una nuova occasione mancata è
altissima. E altissima resta, purtroppo, la probabilità che,
tra dieci anni "saremo ancora molto lontani dall'aver posto fine
a quella marginalità economica e ambientale che affligge
miliardi di persone".
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