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Cartoline dall'orrore |
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Non un tentativo di nascondersi il viso. Non un'ombra, una macchia, una sovraesposizione. È tutto chiaro, nitido e perfetto. Cresce l'orrore: nell'esercizio del male, gli aguzzini erano in posa. Ogni vergogna è esclusa, ogni consapevolezza. Nessuna “coscientia sceleris”. In posa ci si mette nelle ricorrenze liete. Matrimoni, battesimi, feste, compleanni. Perfino ai funerali, anche se gli intervenuti sono, in genere, innocenti per quanto riguarda la cattiva sorte del defunto, non si scattano foto ricordo. Ce ne sarà soltanto una, sulla tomba, una mesta cornice ovale, dalla quale il morto sorride alla memoria di chi resta, con un mazzetto di fiori davanti. Non c'è niente da festeggiare, in un funerale. La tristezza non vuole essere bloccata in un fotogramma fisso che la costringa a perdurare nel tempo. C'è forse qualcosa da festeggiare nel rito del punire, ove non lo si ritenga un esempio da seguire, da proporre ai posteri? Se siamo d'accordo nel ritenere un crimine l'accanimento sadico contro uomini inermi, non sarebbe stato più logico non lasciare, da bravi criminali, nessun indizio? Non sarebbe scoppiata la bomba del disgusto, né quella, non meno fastidiosa, dell'imbarazzo. A soffrire saremmo stati soltanto noi, noi pacifisti, noi che per la guerra (questa, ma anche tutte le altre) soffriamo comunque, anche senza il dolore aggiunto di 3000 testimonianze di mostruosità. Non sarebbe stato meglio, non consegnare all'album di famiglia del ricco occidente, quello che manda i suoi figli al college e all'università, quello che li copre e li nutre al meglio, che li distrae con tanti giochi, che li premia e li manda in vacanza, questo ricordino barbarico? Sì, sarebbe stato meglio: per i colpevoli che avrebbero continuato a tirarsela da eroi e combattenti, invece di finire davanti alla corte marziale. Ma, in fondo, sarebbe stato meglio anche per noi, noi pacifisti, noi che la violenza la rifiutiamo in tutte le sue forme: il troppo deforma anche la lucidità politica, viene voglia soltanto di gridare “basta!”, “vergognatevi”! Niente di costruttivo o intelligente. È difficile mantenersi freddi e ragionare, quando la misura è colma. Tacciono le domande. Ed è sbagliato. Per esempio: perché non chiedersi il senso, di tutta questa smania di documentazione. Si tratta soltanto della nostra appartenenza alla società dell'immagine? È il clik- clik un po' ossessivo, con cui schiere di turisti disattenti dimostrano a sé stessi di aver guardato un tempio, un panorama, un monumento? Si tratta soltanto di cartoline dall'inferno, souvenir dal regno del Diavolo? No, non è soltanto questo, non è soltanto la pigrizia indotta della modernità. C'è un precedente, purtroppo, una dramma del secolo scorso, ed è il nazismo, ci sono tutti i cineoperatori e i fotoreporter che pensarono bene di documentare con puntigliosa precisione gli orrori dei lager, i treni piombati, le camere a gas, le cataste di cadaveri. Perché? Che cosa li ha spinti a immortalare gesta tanto abominevoli? L'atto del fotografare o è denuncia, e in questo caso sono i difensori delle vittime, i liberatori, che se ne fanno carico, dopo. E fotografano i resti: ossa, teschi, scarpe. O è una tronfia e barbarica assunzione di responsabilità. I nazisti hanno documentato l'efferatezza dei loro crimini come se davvero credessero che la loro era una missione, che lo sterminio degli innocenti avesse a che vedere con una doverosa disinfestazione del mondo dalla presenza nociva della razza ebraica. Io, come la maggior parte degli italiani, sono nata dopo che tutto era finito da lunga pezza ed era stato stigmatizzato e disinfettato con tante parole di condanna. Perdonato no. Perdonare è impossibile. Non si può perdonare ai nazisti come non si può perdonare alle truppe di occupazione anglo-americane in Iraq. Non si può perdonare alla signorina England, come non si può perdonare ai tanti soldati semplici che strapparono i figli dalle madri per mandarli a morire ad Auschwitz, o a Bergen Belsen. Non si può perdonare né chi ha ricevuto degli ordini né chi li ha dati. Né allora, né oggi. Ed è proprio la documentazione fotografica l'aggravante, è una dichiarazione di colpevolezza, non una testimonianza di trasparenza. Non ci si mette in posa se si prova vergogna, se si è costretti al male per contratto militare, ma si soffre nel farlo. Non si sorride, non si fuma, non si porge il viso alla luce più conveniente. Quelle tremila fotografie pesano e peseranno come un macigno sulla coscienza dei paesi civilizzati. Pesa anche la cassetta video che mostra la selvaggia esecuzione del giovane Berg. Per una sorta di grottesca par condicio dell'orrore, “Il Foglio” l'ha offerta in prima pagina, quella testa mozzata. Il sottotesto è elementare, come nei dispetti dei bambini piccoli: visto che sono cattivi anche loro? Lo sono, infatti. Anche se, pare, non su scala industriale. Se, però, vogliamo sforzarci di ragionare (Giuliano Ferrara dovrebbe, per rispetto della sua fama di intelligente) si può rimarcare una differenza: il filmato dell'assassinio, come quello che ci ha mostrato le vittime italiane sequestrate, sono l'arma minacciosa del brigante, che vuole convincere a trattare, dimostrare la sua forza, intimidire l'avversario. Sono atroci, non lo metto in dubbio. Ma hanno un senso, una chiave di lettura chiara, decifrabile. Qual è il senso delle tremila fotografie che consegnano alla storia i soprusi dei soldati americani sui loro prigionieri? Che cosa descrivono? “La rabbia” o “l'orgoglio”? Tutte e due? Allora, forse, la signora Fallaci Oriana vorrà farci la cortesia di fornire qualche didascalia. Non è stata eletta, su una copertina del settimanale Panorama “la più grande scrittrice italiana”? Lidia Ravera – L'UNITA' – 14/05/2004 |
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