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La pietà non esclude il giudizio |
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Mi sono chiesta spesso che cosa può significare, interiormente, profondamente, essere ebreo, appartenere, cioè, al popolo (ma è corretto chiamarlo così?) che ha subito la più atroce ingiustizia della storia dell'umanità. Si diventa più fragili o più determinati? Più sensibili o più duri? Se, come la maggior parte degli adulti di oggi, sei nato dopo la Shoah, dopo la sconfitta del nazismo, quando tutto il mondo civile, compattamente esecrava l'orrore della persecuzione, che cosa cambia? Le parole di tuo padre, di tua madre ti hanno marchiato, si sono incise nelle mente e nel sentimento, hanno modificato la tua percezione di te stesso come essere sociale? Sentir raccontare può essere peggio che vivere direttamente un'esperienza, quando si ascolta l'indicibile. Io, che non sono ebrea, ricordo perfettamente la prima volta che ho sentito parlare dell'olocausto, ricordo Il diario di Anna Frank letto a dieci anni. Ricordo lo stupore: ma veramente hanno fatto questo? Ma perché? E, subito dopo, la ribellione: ma tu che eri già nata, ho chiesto a mia madre, perché non hai fatto niente? Come avete potuto sopportare, voi, ragazzi di allora, ve ne siete fregati perché eravate d'un'altra razza? La risposta, vaga, neppure imbarazzata, me la ricordo ancora: noni non sapevamo niente, mica c'era la televisione, allora. Alla ribellione, ai processi sommari che imponevo a tutti i grandi, seguì la fase dell'ammirazione. Gli ebrei mi sembravano tutti meravigliosi: erano stati perseguitati perché erano i migliori, i più intelligenti e i più colti (così li presentava il cinema), con quei visi angolosi e i capelli folti, altro che i crucchi con le tonde e bionde facce di patata. Adoravo Philip Roth e Woody Allen, quel loro disperato umorismo, la caustica autoironia, ma anche più tardi, Giacoma Limentani e Natalia Ginzburg, che raccontavano storie piccole e universali. All'ammirazione seguì l'invidia: se confrontavo il tiepido credo e l'inesistente identità della mia famiglia cattolica borghese torinese con il forte senso d'appartenenza delle grandi famiglie ebraiche, non potevo che schiattar di invidia. Li invidio tuttora gli ebrei, forti d'essere minoranza, muscolosi per essersi dovuti difendere, orgogliosi d'aver costruito una casa comune, Israele, ricca di tutte le nazionalità di provenienze dei suoi cittadini. Li invidio e li rispetto, sia quelli che vivono in Italia o in Francia o in America, sia quelli che hanno deciso di darsi uno Stato, un luogo fisico e simbolico di ricomposizione. Quello che non riesco proprio a sopportare è il divieto, più che un divieto, un tabù, l'interdetto di criticare Sharon e la sua violenta politica di annientamento dei vicini di casa, senza ritrovarsi addosso l'etichetta di antisemita. Mi pare, questa, un'arma impropria che, brandita a sproposito, rischia di incoraggiare proprio quel clima d'odio che si dice di temere. Il mondo è pieno di imbecilli che si sentono vivere soltanto se possono permettersi un nemico. Vogliamo offrire loro un alibi grande come la guerra in Palestina per bruciare sinagoghe? Essere figli delle vittime dell'olocausto è una forza, il vittimismo è una debolezza. E' debolezza il calcolo aritmetico della pietà: ne provate più per i ragazzi israeliani saltati in aria mentre andavano in pizzeria, o per i civili palestinesi che vivono sotto il tiro dei carrarmati? Ne proviamo per tutti. Moltissima. La pietà è uno stato d'animo più estremo e più impegnativo del sentimentalismo funzionale di cui si serve la politica. Ma la pietà non esclude né la rabbia né il giudizio. Sharon è un falco, ossessivamente votato all'esercizio della forza, oppure, se crede veramente che la ferocia estirpi il terrorismo, è uno stupido. E se qualcuno ha il coraggio di dirmi che sono antisemita, dato che questo è il clima, posso anche prenderlo a calci. Lidia Ravera L'UNITA' 11/04/2002 |
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