Anche
se non è passato molto tempo, le giornate del 19 e 20
dicembre 2001 sono già diventate storiche per l'Argentina.
Se la dittatura instaurata dal generale Videla aveva lasciato il
posto alla democrazia nel 1983, il progetto economico
neoliberista dei militari (con l'arrivo di Pinochet, nel 1973, i
Chicago boys sbarcavano in Cile per sperimentare il
modello monetarista che nel 1976 sarebbe stato riprodotto in
Argentina) era infatti rimasto in piedi fino al crollo del 2001.
L'Argentina, come il Cile, sarebbe diventata un laboratorio di
economia in condizioni «ottimali», con la violenza
militare a garantire il totale controllo sociale. In entrambi i
paesi non c'erano partiti politici né parlamento né
sindacati, era vietato ogni tipo di riunione, la stampa era
sottoposta a censura e la minima trasgressione era punita con la
scomparsa del sovversivo. In queste condizioni è
stato messo a punto ciò che sarebbe diventato il progetto
economico del Fondo monetario internazionale - di cui la
violazione dei diritti umani è l'altra faccia, perché
la concentrazione economica non può che generare
esclusione sociale. In Argentina questo modello provocò
30.000 desaparecidos e la devastazione dell'economia per
molti anni, con la complicità della classe dirigente
locale.
Gli argentini hanno scontato sulla propria pelle
gli errori del progetto neoliberista. Nel 2001 non c'era quasi
più traccia di quel paese che per tutta la prima metà
del Novecento era stato tra i sette più ricchi del mondo.
L'Argentina non aveva mai subito un crollo di questo tenore, il
paese non riusciva ad onorare il debito estero ed era costretto a
dichiarare il fallimento. Nel periodo che va dal 1998 al 2001
furono migliaia le fabbriche che chiusero le porte. I disoccupati
crescevano a dismisura e quelli che ancora avevano un lavoro
erano disposti a qualsiasi cosa pur di non perderlo.
Ad un
certo punto però, la disperazione si trasformò in
lotta. Gli operai incominciarono ad occupare le fabbriche che
chiudevano e la polizia non sempre riusciva a far sgomberare gli
stabilimenti. Nasceva il movimento per il recupero delle
fabbriche.
Viaggio nelle fabbriche recuperate
Non
è facile capire come funzionano le fabbriche recuperate e
quante sono. Le cifre sono spesso contraddittorie, i diversi
movimenti che organizzano gli operai non sono uniformi e ci sono
molte esperienze di cui non si sa nulla. Non è però
difficile capire che il fallimento economico ha portato a
diversificare le proposte per tentare il recupero delle aziende
dimesse. Oggi i movimenti che raggruppano queste esperienze sono
due, con diverse posizioni politiche ed economiche: il primo,
maggioritario, è il Movimiento Nacional de Fábricas
recuperadas por los Trabajadores; il secondo, il Movimiento
Nacional de Empresas Recuperadas. Mentre il primo organizza
la produzione in cooperative autogestite, il secondo chiede la
statalizzazione delle aziende fallimentari. Il primo vede in
Néstor Kirchner un compagno che ha modificato la legge che
regola il fallimento, cedendo le installazioni alle cooperative
autogestite ed espropriando i macchinari. Il secondo considera
che si tratta di politiche riformiste che riproducono forme di
autosfruttamento, che il sussidio dello stato è
indispensabile per garantire salari degni. Tra queste due
proposte si articolano un gran numero di prospettive che hanno
portato avanti l'occupazione/recupero di centinaia di imprese in
fallimento. Vediamone alcune.
Dai tessuti ai
trattori
Due sono le fabbriche-emblema della lotta
operaia: la Brukman e la Zanon. Entrambe hanno avuto una lunga
storia di lotta. La Brukman è un'azienda tessile che si
trova nel Once, un quartiere centrale di Buenos Aires. Qui
lavoravano 500 operai, prevalentemente donne, e da qui è
partita una delle prime occupazioni. Era il 18 novembre
2001, proprio un giorno prima delle giornate che hanno infiammato
l'Argentina - mi racconta Matilde Adorno - i padroni ci hanno
detto che avrebbero chiuso 15 giorni per ferie, ma noi abbiamo
capito che era la fine e abbiamo deciso di restare. Per un
anno e mezzo gli operai sono riusciti a mantenere in piedi la
produzione, molti debiti sono stati saldati e alcuni lavoratori
precedentemente licenziati sono stati riassunti; perfino lo
stipendio era maggiore. Ora era diventata una fabbrica senza
padroni, una perfetta autogestione che coordinava tutti i lavori,
compreso quello amministrativo. Tutto cominciava a girare per
bene quando è giunto il temuto ordine di sgombero e alle
porte sono stati messi i sigilli. Gli operai della Brukman,
insieme alla larga rete di solidarietà che nel frattempo
era stata costruita, non erano però disposti a cedere e
tre giorni dopo si sono dati appuntamento davanti alla fabbrica.
C'erano tutti, dagli operai alle forze politiche che avevano
appoggiato l'azione passando per associazioni di disoccupati,
operai di altre fabbriche recuperate, associazioni di diritti
umani, le Madri di Plaza de Mayo e perfino Naomi Klein. C'erano
tutti, ma anche circa 400 poliziotti disposti a dare battaglia.
Inutili furono le mediazioni: il 21 aprile 2003 l'intero
quartiere veniva messo sottosopra. La violenta repressione lasciò
un saldo di 28 feriti e oltre 100 detenuti.
La tenacia dei
lavoratori che avevano tentato di riprendere il loro posto di
lavoro aveva avuto come risposta la violenza, ma non era stata
sconfitta: doveva solo cambiare strategia. Da quel momento gli
operai hanno puntato tutto sulla battaglia legale. Prima hanno
chiesto senza successo che l'azienda fosse acquistata dallo
stato. Poi hanno tentato la via dell'espropriazione, con
successo: il 30 ottobre 2003, mentre una sentenza dichiarava il
fallimento della Brukman, il governo espropriava lo stabilimento
concedendolo in uso alla cooperativa degli operai.
Nel
dicembre 2003 ho visitato la Brukman e ai primi di gennaio di
quest'anno sono tornato per verificare l'andamento del progetto.
L'anno scorso la fabbrica era ancora al buio, senza luce né
acqua: ora si possono vedere centinaia di vestiti pronti per la
consegna.
Inizio difficile
Mi spiegano che
le cose sono molto cambiate, il primo periodo è stato
difficile ma adesso sono 62 soci e producono 80 vestiti al
giorno. La nuova legge del governo che regola il fallimento ha
legittimato l'occupazione e ha ceduto lo stabile, con 20 anni per
pagare i debiti insoluti contratti dall'azienda fallimentare al
prezzo stabilito dal giudice. Per i macchinari invece, è
stata applicata la legge che prevede la donazione agli
operai.
Anche l'esperienza della Zanon, una fabbrica di
ceramiche della provincia di Neuquen, è stata molto dura.
Inizia nel luglio 2000, quando la morte di un operaio in un
incidente sul lavoro provoca uno sciopero di nove giorni. Il
conflitto con la dirigenza sindacale e aziendale sfocia nel
maggio successivo in un nuovo sciopero di 34 giorni. Gli operai
si uniscono ai piqueteros nei blocchi stradali, il
confronto si fa più violento e finisce con la chiusura
della fabbrica. Anche qui gli operai si rivolgono alla
magistratura, che obbliga l'azienda a riprendere la produzione.
Ma quando gli imprenditori rispondono con 200 telegrammi di
licenziamento, la fabbrica viene occupata e in pochi giorni
rimessa in funzione sotto controllo operaio.
Le conquiste
della Zanon sono il frutto di una corretta politica di alleanze
con altre fabbriche in lotta, con la comunità locale e
quella mapuche (gli indigeni originari della zona). Uno di questi
gesti fu la donazione di materiale per la costruzione di una sala
dell'ospedale locale, che il governo aveva abbandonato. Un
atteggiamento che è stato ricambiato da medici ed
infermieri con guardie sanitarie in fabbrica. Oggi la Zanon, dove
lavorano 450 operai, è diventata la fabbrica più
importante della provincia. La magistratura ha condannato
l'antica direzione per bancarotta fraudolenta. Le difficoltà
non mancano, tutti guadagnano 800 pesos (200 euro) per otto ore
di lavoro, solo quelli con più anzianità possono
arrivare a 1000. Ma il pericolo maggiore è l'ordine di
sgombero e la messa all'asta dei macchinari, disposta dalla
magistratura nel novembre scorso per saldare un debito di 3,5
milioni di pesos per crediti concessi ai vecchi proprietari e mai
restituiti.
Le nuove esperienze
Nell'Argentina
di Kirchner l'occupazione delle fabbriche è diventato un
fenomeno meno frequente. A Buenos Aires ho avuto occasione di
visitare una delle ultime strutture recuperate dal movimento,
l'Hospital Israelita, un'antica clinica portata al
fallimento e da novembre gestita da una cooperativa.
Un'esperienza inedita per lo stesso movimento, che si sta dando
d'affare per gestire questa enorme casa di cura di sette piani
nel centro della capitale. L'Hospital Israelita è
stato fondato 104 anni fa dalla comunità ebraica ed è
stato tra le strutture sanitarie più importanti della
città. Un ospedale-scuola che nei primi tempi dava anche
alloggio agli emigranti che arrivavano in Argentina. Poi è
stato aperto a tutta la cittadinanza restando comunque legato
alla numerosa comunità ebraica di Buenos Aires.
I
membri della cooperativa mi raccontano che nel 1996 è
cominciato il processo di svuotamento dell'ospedale che doveva
essere trasferito per fare spazio ad un moderno shopping mall.
Allora è cominciata la lotta di medici ed infermieri per
salvare la struttura. L'ospedale, che ha una capacità di
350 letti, è ora gestito da una cooperativa di 180 soci
tra personale medico e paramedico, che in due mesi è
riuscita a normalizzare molti reparti. Come nelle altre
esperienze, l'inizio è stato molto duro, riuscivano a
pagare solo 30 pesos alla settimana, adesso sono arrivati a 100
pesos (25 euro) ma non si lamentano: Stiamo rimettendo in
piedi la struttura dell'ospedale, dobbiamo fare riparazioni,
comprare materiale e pagare i medici. Lo stabile è
stato occupato solo un giorno, la magistratura ha poi ammesso il
diritto della cooperativa a gestirlo secondo le nuove norme. Il
giudice ci ha affittato la struttura, abbiamo pagato 5.000 pesos
a novembre e a dicembre, ma adesso a gennaio e febbraio, dovremo
sborsarne 10.000, e 20.000 a marzo. Il cannone che ci è
stato imposto serve a pagare i crediti insoluti che ha lasciato
la passata amministrazione. Uno dei nostri progetti principali è
quello di porre il nostro ospedale al servizio del Movimento
delle Fabbriche Recuperate. Organizzare qui la mutua del
Movimento:solo con questo, oggi potremmo assistere 9.000
famiglie.
Ci sono molte altre esperienze
interessanti che dovrebbero essere studiate, come quella della
Zanello, una fabbrica recuperata che produce un prodotto di alta
tecnologia, un trattore con motore a gas liquido, unico nel suo
genere; o quella della cooperativa Comunicar, che da tre
anni gestisce il giornale El Diario di Villa Maria. In
tutte queste esperienze si cercano nuove forme di gestione e di
organizzazione del lavoro. Si vogliono recuperare non solo il
sistema produttivo, ma soprattutto i vincoli etici della
solidarietà sociale. Senza questi presupposti, la storia
sarebbe già finita.
Claudio Tognonato IL
MANIFESTO 10/02/2005
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