LAfrica
a sud del Sahara è un immenso giardino in rovina, un
continente ospedale dove la gente sopravvive, decimata da guerre
decennali, dallAids, dalla malaria, dalla fame e dalle
catastrofi naturali. I due terzi dei malati di Aids del pianeta
vivono qui, gran parte dei quali non possono permettersi le
medicine, per via del controllo sui prezzi dei farmaci imposto
dalle politiche economiche dei paesi ricchi. Ogni giorno, lAids
uccide in Africa circa 6.700 persone. Laspettativa media di
vita è scesa a 41 anni, di 36 anni inferiore a quella
europea. LAids, le guerre e la fame hanno generato ben 34
milioni di orfani, e letà media di un africano oggi
è di appena 19 anni. Metà della popolazione è
affetta da malattie causate dalla mancanza dacqua potabile,
alla quale due terzi della popolazione non ha accesso. Se gli
affamati del mondo sono 840 milioni, un terzo di questi vive in
Africa. Oltre il 40% della popolazione sub-sahariana non ha la
possibilità di consumare più di un pasto al giorno.
Tutti i giorni 5000 bambini muoiono a causa della diarrea o delle
sue conseguenze. Ogni secondo, un bambino africano muore di
malaria. Più di un milione ogni anno. La malaria consuma
il 40% della spesa della sanità pubblica, e annualmente
250 milioni di persone restano indebolite dalla malattia, senza
poter lavorare o andare a scuola per mesi. Un africano su due
sopravvive con meno di un dollaro al giorno, mentre meno del 50%
delle persone ha accesso a strutture mediche.
Lequazione
è logica: una sanità pubblica insufficiente può
distruggere il potenziale economico di un intero continente.
Abituati a pensare agli aiuti umanitari in Africa come
unicamente occidentali, lidea che gli africani possano
avere un ruolo importante per la propria rinascita, ci sfiora
appena. Eppure sono centinaia di migliaia gli operatori umanitari
africani che lavorano per lo sviluppo nel vastissimo territorio
subsahariano, alla ricerca di soluzioni ai grandi problemi che
affliggono unenorme popolazione, 600 milioni di persone. I
nostri media puntano i riflettori quasi unicamente sugli sforzi
ed i successi della Comunità Internazionale, in
particolare sul lavoro delle agenzie delle Nazioni Unite e alcune
Ong straniere. Raramente si mette lenfasi sul lavoro svolto
dagli africani stessi, sui metodi utilizzati e i risultati
ottenuti.
A
questo proposito vale la pena mettere in luce il lavoro della
African Medical & Research Foundation (Amref), la
principale Ong africana di aiuti medici, che dal 1957 opera in
tutti i paesi dellAfrica orientale. La peculiarità
dellorganizzazione è il suo personale altamente
qualificato composto al 95% da professionisti africani: da quasi
50 anni Amref forma medici, operatori sanitari, infermieri,
sociologi e ingegneri, destinati a lavorare nelle strutture
sanitarie in Kenia, Sud Africa, Tanzania e Uganda, Etiopia e
Mozambico. Inoltre la fondazione ha uffici e progetti in Ruanda,
Somalia e Sudan, ma è anche attiva con corsi di formazione
in 27 paesi del continente. È presente capillarmente nel
territorio, con ospedali, cliniche e ambulatori, istituti di
formazione e progetti di sviluppo, in collaborazione con i
governi di ciascun paese e i rispettivi ministeri della sanità.
Nella
vastissima regione che va dal Sudan al Sud Africa, la più
colpita da guerre di lunga durata e dallAids, Amref ha
svolto sin dallinizio dellepidemia un ruolo chiave
nella lotta al virus, agendo con strategie per la prevenzione e a
livello clinico, oltre a condurre progetti di ricerca che hanno
ottenuto importanti risultati. Ciò che distingue Amref dal
consueto lavoro dellOnu e di altre Ong, è il suo
metodo di lavoro con le comunità, o Community Based
Health Care, che mira al miglioramento della salute della
gente nei villaggi attraverso la formazione di personale adeguato
e la presenza di strutture sanitarie di base, affinché le
comunità possano rendersi autosufficienti.
Il
quartier generale di Amref si trova a Nairobi, dove abbiamo
intervistato il suo Presidente, la professoressa Miriam Were. 65
anni, medico e professore universitario, ha lavorato a lungo con
alcune agenzie delle Nazioni Unite in più paesi
dellAfrica orientale ed è presidente del Kenya
National Aids Control Council.
Professoressa
Were, lei ha dedicato tutta la sua vita agli aiuti medici in
Africa. Quali sono stati gli sviluppi più significativi a
cui ha assistito durante la sua carriera?
La
sfida allinizio, quando in Kenia la sanità
raggiungeva solo l1% delle persone, è stata quella
di gettare un ponte tra il sistema medico tradizionale e quello
moderno. Le comunità dei nostri villaggi erano molto
passive allora, la sanità era in mano ai guaritori o ai
missionari. Il sistema coloniale aveva deresponsabilizzato i
singoli individui. Abbiamo capito che lunico modo per
progredire era quello di ridare potere e indipendenza alla gente
nei villaggi.
Qual
è il concetto delle Community?
La
maggior parte degli africani abita in zone rurali remote, lontana
da qualunque struttura sanitaria. Ma se rendiamo indipendenti le
comunità locali, fornendo loro gli strumenti, le strutture
e i farmaci, e soprattutto formando gli operatori sanitari
allinterno delle comunità stesse, allora si può
ottenere un valido sistema di prevenzione, diagnosi e cura, con
risultati concreti. Bisogna dare i mezzi ai più poveri,
affinché la buona salute diventi uno strumento per uscire
dal circolo vizioso della povertà.
Grazie
a quale meccanismo?
Una
volta per tutte vorrei sottolineare una cosa fondamentale: la
povertà, quella estrema, uccide lo spirito diniziativa.
Quando si è molto poveri e molto affamati, si inizia a
pensare di non poter far più nulla della propria vita.
Quando si vive in fondo a una buca, si ha bisogno di qualcuno che
ci getti una corda per poter risalire. Il sistema delle Cbhc
aiuta la gente a riacquistare la fiducia in se stessa. Una volta
avviato, saranno gli abitanti del villaggio a individuare le
proprie priorità, stabilendo se la principale causa di
morte è la fame, la malaria, lAids, o altro. Un
primo passo perché poi possano prendere i provvedimenti
necessari in autonomia.
Un
sistema poco pubblicizzato dai nostri media, per i quali gli
aiuti umanitari sono unicamente sinonimo di Occidente.
Uno
dei maggiori crucci nella mia carriera è stato dover
sentirsi dire per anni dagli stranieri che gli africani sono
poveri a causa della loro pigrizia, che non hanno cura di se
stessi e non lavorano duro. So che per gli occidentali è
difficile comprendere, almeno fino a che non vedono con i propri
occhi, ma bisogna far capire alla gente che questa povertà
è reale e devastante.
Quali
sono stati i primi risultati concreti del lavoro con le comunità?
Quando
ero un giovane medico, allinizio degli anni Settanta, ci
siamo resi conto che il 70% delle malattie erano connesse alla
mancanza totale di latrine e del sistema fognario, specialmente
nelle zone rurali. Siamo riusciti a promuovere luso delle
latrine, non è stato facile ma i risultati si sono visti
subito. Oggi la gente sa bene che luso non corretto
dellacqua è sinonimo di malattie. Adesso le madri
sono capaci di badare alla loro salute e a quella dei propri
bambini. Anni di lavoro con le comunità hanno dimostrato
che nella nostra società le madri svolgono un ruolo
importantissimo e hanno molte responsabilità: crescono i
figli, si procurano il cibo, lavorano la terra. Quando la madre è
in salute, lo è anche tutta la famiglia.
Quali
sono state le difficoltà rispetto allepidemia del
virus Hiv/Aids?
Limpatto
del virus è stato devastante, ci ha fatto perdere molte
delle nostre conquiste e della nostra fiducia. Quando dicevo alle
persone di usare le latrine, spesso mi ridevano in faccia, come
quando ho dovuto convincerle a cambiare le abitudini sessuali.
Sulle prime non ci davano retta, ma una volta visto che la
malattia gli aveva ucciso il padre, le sorelle, gli amici,
nessuno ha più negato levidenza. Cè
ancora un po di superstizione, ma ormai tutti sanno che
lAids uccide.
E
i risultati?
In
Kenia studi recenti hanno dimostrato che lincidenza del
virus è scesa dal 14% al 7%. In Uganda, addirittura dal
18% degli anni Ottanta al 6% di oggi. Abbiamo lavorato sulle
metodologie, sulla condivisione delle strategie, sulla formazione
del personale sanitario, la distribuzione dei farmaci. Siamo
ancora in piena guerra, ma a forza di campagne, di prevenzione e
di lavoro con le Cbhc, abbiamo ottenuto i primi risultati. Oggi,
grazie allesistenza dei farmaci anti-retrovirali, le
persone hanno un po più di fiducia. Sono ancora
pochi ad accedere a queste cure, ma la lotta continua.
Quali
sono per Amref i maggiori problemi legati al virus da affrontare
nelle comunità?
LAids
ci ha lasciato milioni di orfani in tutto il continente, in
Uganda per esempio siamo molto attivi in questo settore. In
Etiopia Amref si occupa di orfani e vedove, in Tanzania abbiamo
ottenuto risultati eccellenti con i laboratori di analisi. Qui in
Kenia abbiamo avuto un ruolo chiave per la lotta al virus:
collaboriamo con il settore privato per sviluppare nuovi
programmi contro la stigmatizzazione, perché la gente
impari a non isolare i malati.
Qual
è la strategia contro la malaria?
La
malaria ci sta uccidendo, alcuni studi dicono che fa più
vittime dellAids. Parlando di prevenzione penso che il
rimedio possa essere il più semplice: luso di
zanzariere intrise di disinfettante. Studi importanti dimostrano
che così facendo incidenza della malattia diminuisce
drasticamente. Questo tipo di prevenzione va soprattutto a favore
delle donne in gravidanza e dei bambini, che hanno entrambi un
sistema immunitario a rischio.
Per
noi occidentali sembrerebbe un ostacolo sormontabile
Quello
che ai vostri occhi può sembrare facile, è spesso
una grande sfida qui in Africa. La prima domanda è: chi
paga le zanzariere? Secondo: chi le trasporta? Vede, si dovrebbe
innanzitutto chiarire che quando si dice che la metà degli
africani vive con meno di un dollaro al giorno, questa è
realtà. Quel dollaro serve per la colazione, il pranzo, la
cena, per la scuola dei figli, per le medicine. Ditemi come
potrebbe entrarci anche lacquisto di una semplice
zanzariera.
Quali
sono stati i momenti più drammatici nel suo lavoro di
medico in Africa?
Sicuramente
il giorno che ho visto la speranza svanire dalle facce della
gente, quando che lAids è diventato un problema
serio. Inoltre, è sempre stato penoso sentir dire dagli
africani che tutto sembra comunque fatto apposta affinché
lAfrica non si renda mai indipendente. Io invece ho molta
fiducia, stiamo trovando il modo di rompere il circolo vizioso
della povertà. Ma come contrastare questa povertà,
le malattie e la corruzione, se prima non si offre alla nostra
gente la possibilità di svilupparsi e rendersi
indipendente?
Qual
è il suo sogno africano?
Il
mio sogno è che lAfrica contribuisca al suo proprio
sviluppo. È qualcosa che in parte già succede, ma
non è abbastanza evidente. Vede, spesso perfino noi
africani siamo i primi a dire ci manca questo e
questaltro, non abbiamo quello
, sono anni che
vado dicendo che invece di sottolineare ciò che non
abbiamo, dovremmo guardare a ciò che di più
prezioso possediamo in abbondanza, e cioè milioni e
milioni di comunità! Sono ovunque nel continente, è
questa la nostra vera ricchezza. Dobbiamo valorizzarla.
Intervista di Paola Boncompagni
L'UNITA' 25/02/2005
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