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Elena Bono |
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Antologia poetica |
ANTOLOGIA POETICA |
I GALLI NOTTURNI
Ella sorrideva ai marinai
Ella sorrideva ai marinai,
li attirava alla taverna.
Ma poi di nascosto chiedeva
lunghi racconti di mare,
i grandi venti i gabbiani
le nebbie le isole di corallo
la verde luna oceanica
quando si innalza dai ghiacci.
Poche notti era sola.
In quelle notti pensava il mare
i venti i gabbiani
le grandi nebbie e la luna.
E la luna quando è così sola
così nuda tra i ghiacci
e non la ricopre nessuno.
Tramonto di Elena
Labbandonava la sua bellezza,
chissà dove fuggiva
immemore di lei
spietata.
E accanto le venivano i morti
né ella più li scacciava:
solo ad essi appariva
come un tempo preziosa
remota
nel suo scintillare,
quale appare il ghiacciolo
solitario sospeso
ai fastigi del tempio
nella notte lunare.
I galli notturni
Mezzanotte. I galli
si chiamano
rispondono
distanti.
Ed ora il mare si solleva
come un grande sospiro,
verso il cielo,
ora le stelle altissime
nel loro giro
stanno immote
e fatali,
sospeso è il sonno dei dormienti
ed i morenti trascolorano
in attesa.
D'ogni lontananza i galli
chiamano
e nessuno risponde.
Fortezza inespugnabile serrata
tace la notte;
dai bastioni si innalza
il grido delle scolte
e misterioso appare
quanto il silenzio,
e pauroso.
Quasi che il tempo stesso gridi l'ora
e si spaventi del suo grido;
il tempo insonne
pallido solitario
sugli spalti
a contemplare
come si smorzi il grande
sospirare dei mari,
lente declinino le stelle
e vastamente intorno
fluisca il sonno sulle cose
quale fiumana tacita
che tutto travolga
e tutto riconduca alla sua foce.
Fenicotteri
Viene la sera e accende, quasi richiamo, i suoi fuochi
su tutte le vette dei monti:
fiammeggiano,
a picco su nere valli,
castelli di corallo.
Giù, nelle valli nere stagni invisibili mandano
gelidi lampi d'argento,
splendono qua e là luci vive:
i fenicotteri bianchi.
Bevono lungamente le gelide acque,
lungamente si chiamano,
o chiama forse ognuno la sua eco,
e l'ascolta stupito,
guardano altri
quel magico cerchio di fuochi
sulle montagne.
Ma il loro non è che un passare:
né alla roccia mai apparterranno,
né alla palude,
né a cosa alcuna di terra.
Attendono solo la notte
e i grandi cieli pieni di vento,
sognano il volo soltanto
altissimo quieto
e il lento migrare con gli astri
in sciami lucenti.
Tramonto d'inverno in una chiesa a Ravenna
Quando avrà freddo
portate il mio cuore a Ravenna.
Forse i selvaggi cavalli del mare
sfrenati corrono le onde,
le bianche criniere fiammeggianti sopra i marosi;
folle nitrire sovrasta l'immenso ansimare delle acque.
E li sprona la sera che viene veloce
su dal profondo del mare,
forse la sua verde ombra
si allunga già sopra le cose pietrificate.
Tutto sarà tra poco
naufragio e terrore,
ulular di marosi su tutta la terra,
alto sibilar della sferza che incalza spietata.
Ma qui
su cieli d'oro come risplendono
le candide vesti dei Santi,
estatici gigli
e all'infinito ne fiorisce il giardino.
All'infinito. Lasciate
che si richiudano le acque sopra di noi,
pur che nulla qui venga cambiato
e intatto affondi un tesoro
che fu sempre nascosto.
Ché questo è salvarsi: restare
là dove è ciò che non muore,
eternamente immuni d'ogni timore
In nave sommersa
dolce cosa ascoltar la tempesta,
sognare di Dio che è nei cieli
dal profondo del mare.
ALZATI ORFEO
Santa Giovanna
Preghiera prima della battaglia
Bel principe
signor San Michele,
prendete, ve ne prego, buona spada
e venite con me.
Questo è il campo,
principe San Michele;
ora a voi il comandare
a noi il seguire.
Dovunque s'alzerà la vostra voce
noi saremo.
Breve è il tempo,
signor San Michele
e breve la preghiera,
ma una cosa vi voglio domandare.
Non ritornate questa sera
su nei vostri stellati accampamenti
senza per questo campo ripassare.
Quelli di noi che troverete
col viso nella terra
vi prego non voltate
se amico o se nemico
per vedere.
Nelle tende di Dio
conduceteci tutti a riposare.
Pianto nella cattedrale
I ben vestiti signori viso di volpe
le sibilanti dame coda di seta
il re con in testa la donata corona
tutti sono andati.
Tanto lontani i Santi delle vetrate
quanto i lontani pascoli della Lorena.
Puoi piangere, Giovanna,
fra i gigli d'oro e muti delle bandiere.
Io so, Giovanna:
un petto non può contenere
il cuore che in sé tutto ha contenuto.
Cadano le tue lacrime
fra i gigli tristi e muti delle bandiere.
Eppure tu, ragazza della Lorena,
tu che prendevi in braccio l'agnello stanco
tu di me non dovresti dubitarlo
che io lasci in terra a lungo il mio agnello stanco.
Lamento di Giovanna
Se uno solo fosse rimasto con me!
Non rimase che il mio cavallo.
Voi brucerete le mie carni,
ma il mio cuore fu già bruciato.
Lamento di David sul gigante ucciso
La notte è troppo pesante sopra il mio capo,
la luna non s'alza
non s'alza dalle colline,
io grido
e non mi risponde la terra di bronzo.
Ma ieri chiamavo la luna su quelle colline
e il giovane vento a giuocare
nella foresta
e i cani e le nuvole
l'acqua del fiume
ed il sonno.
Docile sonno, o mio agnello perduto
io non so dove.
Giuochi che David
non giuocherà mai più.
Se io fossi morto, mia madre
piangerebbe su me,
s'io fossi ferito, qualcuno
laverebbe il mio sangue.
Non piange nessuno
se in qualche parte ho perduto
il mio vergine cuore;
se grondo del sangue di un altro
nessuno mi lava.
Tutti laggiù fanno festa,
io sono qui solo
con quello che ho ucciso.
Alzati, rosso gigante
ammucchiato ai miei piedi,
riprenditi il tuo respiro
le cento teste
e l'ira
e le armi di bronzo.
Ridammi la semplice fionda
e il mio cuore
il mio veloce cuore
in corsa sulle colline.
Tu non rispondi, gigante di bronzo.
Terra, tu non rispondi.
E sia pure così.
E inutile gridare.
Dunque la luna ieri
non si alzava per me.
Proserpina
Ed anche quella sera
ella correva
con le care compagne nella valle
e fuggiva a nascondersi
perdendo
qualche petalo lieve
dalla sua
ghirlandetta di rose.
Ma la tradiva tra le foglie
la chiara veste e il tenue
profumo delle rose
ed il vivo vibrare del cespuglio
al suo piccolo riso
spaventato.
Ancora quando
viene la sera nella valle
ritornano a giuocare le fanciulle
bianche correndo fra le ombre,
ed ancora taluna
parla di lei,
di quella sera quando
sparì,
e come arcanamente
nulla di sé lasciando
che la sua
ghirlandetta di rose.
E non v'è strada alcuna
fra le piante
per poterla inseguire
e troppo grande è il buio
della notte che scende nella valle
Orfeo
Come da lui si fu partita
senza addii la sua donna
e il demone che ha alati
piedi fosforescenti,
egli giaceva sulla nera soglia
inanimato.
Allora saettò giù dal cielo
il dio solare,
stette crucciato sul suo capo
e disse:
«Così tu giaci indegnamente
Orfeo,
sulle soglie dei morti,
senza la donna tua,
senza memoria di te.
Era questa la via per ritrovare
le tue cose perdute,
queste squallide rive dell'Averno
e gli dei sotterranei?
Mangia, Orfeo,
chè a te piace
la polvere dei morti,
scorda per essa
il dio solare
e la sovrana virtù
che a te le piante
e gli animali
e terra e cielo conduceva.
Ascolti, Orfeo?
Che cosa tu rispondi
ad Apollo?»
Egli piangeva muto
il suo pianto mortale.
E il dio solare riguardava,
sospirò dal profondo cuore
e disse:
«Un giorno così Apollo
una virginea rosea traccia
inseguiva
per boschi e valli aereamente
Dafne chiamando.
E già l'odore
dei volanti capelli
gli giungeva
e tremante nel vento
la paura
come alone lucente a lei d'intorno,
quando ad un tratto
ella svanì
e solo e dritto avanti al dio
solo un alloro
verdeggiava.
Ed anch'io piansi, Orfeo,
per una lunga
notte infinita.
Ma non lei richiesi
ai freddi iddii fosforescenti
sotto la terra,
non bussai le porte
durissime dell'Ade.
Solo,
io la richiesi al cuore mio
e all'affanno
celeste della lira,
che risorgesse ancora
a me davanti
rosea, tutta tremante
nel suo alone lucente.
Orfeo, mi ascolti,
ascolti il dio
tuo che ti parla?
Alzati, Orfeo,
e s'alzi dal tuo canto
Euridice bellissima
e le mortali cose perdute
e le immortali sperate.
0 cuore della terra
Orfeo
cuore del cielo.»
PICCOLA ITALIA
Dicevi: - A primavera -
Dicevi: - A primavera
a primavera faremo un gran ballo
sul prato di fianco alla chiesa,
aprile dovrà ben venire -.
Aprile è venuto:
trenta e più primavere passate,
non ci fu poi quel ballo
dei partigiani sul prato,
tu non lo sai.
Tu non sai tante cose
da allora.
Tu ed io seduti ancora
sopra il muretto
a picco
sulla vallata,
lo sten qui posato tra noi,
tu dondolando impaziente
le gambe nel vuoto
battendo indietro i talloni
contro il muretto,
il sole rosso negli occhi
addosso l'odore di neve
i verdi anni che hai sempre.
Ti guardo, caro, ti guardo.
Tu non sai quante cose da allora,
ed io non so dirti
il mio cuore pesante
il cuore
che a poco a poco affonda
come una pietra.
Forse anche questo è tradire.
Mi vergogno del cuore che ho adesso.
Con occhi subito inquieti
domandi che cosa.
Io scuoto la testa: no, nulla,
non è nulla, mio caro.
Sì, a primavera quel ballo
Severino
Muoiono anch'essi
i Paladini di Francia,
muoiono anche le stelle.
Quante volte vedendo
alle gole di Roncisvalle
giungere Orlando
altissimo biondo
lucente
più d'un diamante
volevi gridare:
- Ah! non entrasse Vossia! -
e all'uomo dietro le quinte
togliere i fili di mano.
Togliere i fili
di mano alla sorte
è vietato:
Orlando può solo
morire da Orlando
e del suo stesso fuoco
una stella morire.
- Chiddi so' grandi persuni.-
Quelle son grandi persone,
tu un qualunque ragazzo
di Ustica
o di Acireale.
Su quella piazza quel giorno
davanti alla chiesa,
a cavalcioni sopra una sedia
le mani legate
la faccia rigonfia
poggiata sullo schienale,
i mitra già dietro puntati
la gente d'intorno a vedere
il terrone che muore
ma com'è lungo a morire.
Com'è lungo morire
tenere la bocca serrata
ancora una volta
ancora una volta e ancora
alla voce che dice:
- La vita in cambio d'un nome.
Avanti, che cosa è poi un nome? -
No, che cosa è la vita,
risponde il tuo cuore.
Che cosa è la vita,
anche a Orlando
alle gole di Roncisvalle
dovette rispondergli il cuore
in piedi guardando i nemici
venire come fa il mare
egli stringendo la spada,
tu con le mani legate
dietro la schiena.
- Chiddi so' grandi persuni. -
Quelle son grandi persone,
tu un qualunque ragazzo
di Ustica
o di Acireale.
All'Italia che ha combattuto sui monti
Piccola Italia, non avevi corone turrite
né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.
Stanze per Rinaldo Simonetti "Cucciolo"
Fucilato perla libertà nei boschi di Cálvari dove era nato pochi anni prima.
I
Quel giorno come oggi
gelidamente febbraio
gocciava dai castagni;
tu salisti a piedi nudi
questa strada di sassi
che a precipizio scendevi
coi tuoi scarponetti da festa
facendo scintille
la domenica mattina
tante volte tante volte,
e la prima fu quando
nel tulle del battesimo bianco
venisti alla pieve
sul seno ansante e fiorito
della madrina orgogliosa.
- Voglio morire con loro
voglio morire coi grandi -
abbracciando quelle ginocchia
fosti accontentato:
dieci corpi piú uno,
undici corpi ed una corda
su per la salita,
a questa costa dove
parlavi coi castagni
cercando fragole e funghi
i tassi e le lumache
il muschio del presepio
con le dita arrossate
quante volte perdendoti
a guardare
le nuvole fumanti via tra i rami
cosí tacite e diverse
da ogni cosa della terra
che nessuno le può imprigionare.
Oggi si dice Messa fra i castagni
all'altarino dell'Addolorata
coi vostri nomi in oro
e se tu potessi
vedere le fiammelle
che i parenti hanno acceso
per le balze sull'erba
che è soltanto il sudore
gelato di febbraio
oggi a bagnare.
II
Fucilato è una parola importante
e tu te ne fai bello
nel tuo cimiterino
fra i candidi vecchioni
e i bambini lattanti
e le ragazze che invece dell'arancio
ebbero una corona di fiori di carta.
T'ascoltano tutti
con grave attenzione ammirati,
ma che cos'è la libertà
questo non ci riesci
per quanto ti provi
a spiegarlo
e finisce che sempre
con un grosso sospiro
ti smarrisci a guardare
nuvole e nebbie che vanno
insieme alla luna.
I morti nella terra
i vivi nelle case,
gli altri prendono sonno
e soli ad ora ad ora
gridano i galli.
Supino ancora guardi
quelle lunari nuvole andare
di là dai castagni
come una volta.
III
Nessuno te l'ha detto
che un animo da re ci vuole
per entrare negli alti
palazzi della morte,
non da qualunque porta
alla rinfusa gettati
ma dalla grande entrata
a testa dritta
graziosamente
recando le ferite come fiori in dono
mentre il Signore si affretta all'incontro
giú per la scalea aprendo le braccia.
Nessuno te l'ha detto,
ragazzo di campagna.
Ma cosí tu sei entrato.
INVITO A PALAZZO
So di una ragazzetta che lavava lavava
So di una ragazzetta che lavava lavava
- striminzita e gobbina -
i panni della gente
nelle acque del Si Kiang.
Bianchissime le vesti
che la ragazza lavava;
di gran lunga più bianca
la sua veste interiore.
Assunte le sembianze di un Principe Reale
le promisi ricchezze
se veniva con me.
Assunte le sembianze di un vagabondo piagato
le imposi di lavare cenci e piaghe
ripagando con pietre
ed invettive.
Rifiutò le ricchezze del Principe Reale.
Con bel sorriso accolse
le pietre e le invettive
del vagabondo piagato.
Io quando sono stanco
della vostra potenza,
della vostra bellezza mal usate,
e del vostro dolore mal sofferto
e delle vostre gioie mal godute
e del vostro far male tutto quello che fate,
nelle mie proprie Sembianze
discendo al Si Kiang,
non faccio che guardare
la ragazzetta che lava.
Seguitando a lavare
alza gli occhi ogni tanto
e mi sorride.
Così mi riconcilio
e vi sorrido.
Quella straniero era la torre
Quella, straniero, era la torre
delle Fiaccole
e le mura ferrate con le dodici porte.
Laggiù tu vedi la fortezza
col palazzo del Trono
e le dimore tutt'intorno
dei cavalieri della Porpora.
E quello il tempio dei Dieci Tetti d'Oro,
il padiglione delle danzatrici
il giardino di Musica
e quello era il terrazzo delle Regine.
Questa per ogni dove
è l'erba lunga delle rovine di Kiù
e quando il vento
scende per le colline
essa sola si muove
ed essa sola
manda lamento.
Parole di un maestro di tiro con l'arco
Non guardare il bersaglio.
Oltre lo spazio e il tempo
guarda il Punto
dove si trova tutto
anche il bersaglio.
La freccia partirà
calamitata.
Ma se il cuore ti sfugge
inorgoglito
e si chiude nell'arco
brucia l'arco
e disperdi le ceneri nel vento.
Invito a Palazzo
Il Figlio del Sole
il Lucente
l'Imperatore Celeste
mandò quel suo messaggero