Enrico Rava ha un
grande pregio. Piace agli avanguardisti e piace ai
tradizionalisti. Piace a chi ascolta le bizzarrie e
le schegge del nuovo jazz e piace anche a chi non può fare
a meno dello swing, di quell'irresistibile forza motoria e lo fa
volare. Di premi e di riconoscimenti
ufficiali nel corso della sua lunga carriera, Rava ne ha
collezionati parecchi, ma mai tanti come in questo periodo.
Stream, fra l'altro, gli ha dedicato un documentario.
Lei ha dedicato il suo
ultimo disco a Miles Davis, ma il suo amore per questo musicista
parte da lontano...
Ero un bambino cresciuto dopo
la guerra, erano arrivati gli americani, che per noi erano
ricchi, ci regalavano le cioccolate. C'erano dei neri: era una
cosa magica. Aggiungi che uno dei primi neri che vidi era Miles
Davis e ti puoi immaginare...E' un po' come quando vedevi Marlon
Brando: potevano esserci altri cinquanta attori in scena, ma tu
guardavi lui, anche se stava zitto. Oggi mancano dei personaggi
così.
Qual'è il concerto di
Davis che ricorda di più?
Quello storico a Juan Le Pins
con George Coleman, Herbie Hancock e Ron Carter. Ci andai con
Gato Barbieri. Miles salì sul palco con una tromba verde e
con una giacca elegantissima, foderata internamente di seta
rossa. Noi chiacchieravamo con sua moglie Francis nel backstage,
il pubblico era numerosissimo, lui arrivò e si fece strada
in mezzo a loro. Sembrava Mosè. Attaccò Autumn
Leaves. Per me quella allora era musica free: suonare, liberi
al cento per cento, su delle strutture. La vera libertà
nasce da questo, riuscire ad essere libero all'interno dei limiti
imposti. L'errore grave del free jazz degli anni '60, quello che
poi gli ha dato vita così breve, è stato di aver
cercato e preteso una libertà totale. La libertà
totale funziona un giorno o due, dopo tre giorni ti sei creato
degli altri cliché, che però sono meno
interessanti.
Lei ha partecipato
attivamente al free-jazz, senza rinunciare però mai al
gusto per la melodia...
Verissimo. Anche quando suonavo
con Steve Lacy e Archie Shepp, e altri musicisti che urlavano,
ero l'unico lì in mezzo a portare avanti una melodia. Ho
una forte spinta melodica.
La si percepisce in tutte le
sue composizioni...
Un brano deve avere una melodia
chiarissima, leggibilissima, che si scolpisca nell'aria e
soprattutto che non si dimentichi.
E' questo che l'ha spinta a
rileggere le musiche di Puccini?
Credo di sì. E' un
compositore che si presta molto a una rilettura jazzistica. In
fondo quando componeva La Fanciulla del West rimase anche
lui affascinato dal jazz. E viceversa molti compositori di jazz
hanno preso da lui. Quando l'ho riletto, in alcuni punti mi è
sembrato di trovarmi in mezzo a una partitura di Gil Evans.
Tant'è che Gil voleva rifare Tosca con Davis.
Un altro dei suoi amori
musicali è stato Joao Gilberto...
A 16 anni e ho comprato un
disco di Joao Gilberto, ho passato mesi e mesi a riascoltarmi
quello stesso 45 giri. E' stato uno choc, perché prima non
avevo ascoltato nulla neanche di vagamente simile a lui. Adoro
Joao e anche Caetano Veloso. Ma non quella musica brasiliana che
canta sempre l'allegria e il carnevale. E' una gioia fittizia,
che alla fine risulta macabra.
Ci parli dell'Argentina,
dove ha vissuto per un lungo periodo...
L'Argentina è stata la
mia seconda casa. Il musicista che ha cambiato la mia vita, Gato
Barbieri, è argentino. Alcuni degli scrittori che amo di
più sono argentini: Borges per esempio. Buenos Aires è
l'anti Rio De Janeiro, una città forte, misteriosa,
autodistruttiva: bellissima. Ci arrivai nel '76 con Steve Lacy:
dovevamo starci 15 giorni, ma non avevamo i soldi per il
biglietto di ritorno. Suonammo moltissimo. Per due settimane ci
alternavamo in un club con il quintetto di Astor Piazzolla. La
prima sera che lo sentimmo, siamo letteralmente caduti per terra:
non avevamo mai ascoltato qualcosa del genere prima. Nacque anche
un'amicizia, che durò fino alla sua morte.
Parlava di Borges. Lei è
anche un lettore accanito. Penso che sia una delle poche persone
ad avere letto la Recherche di Proust più
volte.
Tre per l'esattezza. Non ho la
televisione, non ho il computer, e quindi occupo il mio tempo a
suonare e leggere. Per almeno una quindicina di anni, quando non
suonavo, la mia occupazione principale era leggere La
Recherche. La finivo e dovevo ricominciarla. Era una droga,
avevo bisogno a tutte le domande, sulla musica, sulla
psicoanalisi, sulla perversione, sulla letteratura, sulle
malattie mentali, sui vizi, sugli effetti.
Chi occupa il suo tempo
libero oltre a Proust?
Carver, John Fante e Bukowski.
Le sue lettere sono bellissime: sembra di leggere un Hemingway in
stato di grazia con un po' di Henry Miller, ma più
diretto.
Tempo fa ci parlò di
un progetto su Thomas Mann, sul Doktor Faustus.
E' un progetto che per ora ho
messo in frigorifero. Volevo registrare un disco con Misha
Mengelberg sulle musiche originali di Adrian Leverkuhn, che
naturalmente non esistono. Ma Thomas Mann le descrive talmente
bene, che la musica è già lì. Basta
lavorarci un po'.
Lei è stato anche
protagonista di un fumetto, di un noir.
Quando ero piccolo ero un
lettore accanito di fumetti, ogni tanto leggo ancora Tex. Il
fumetto del quale parli è una storia scritta da Altan,
ambientata a New York e della quale sono protagonista. Ne ho
ricavato un disco che si intitola appunto Rava Noir, che ho
inciso con l'Electric Five, un mio gruppo con giovani jazzisti.
Lei suona spesso con i
giovani.
Spesso hanno una spinta
maggiore rispetto a chi è già arrivato. E poi ce ne
sono di veramente bravi, li ho affettuosamente soprannominati
pit-bull, perché quando suonano picchiano, fanno male.
Sono bravi, corazzati, hanno studiato come si deve, leggono
benissimo la partitura, li puoi mettere a suonare qualsiasi cosa
che la fanno egregiamente. Penso a Emanuele Cisi, Fabrizio Bosso,
Rosario Giuliani e molti altri.
Cosa consigli loro?
Di andare a Parigi. La città
del jazz.
Lei invece da giovane era un
jazzista molto radicale.
Direi quasi integralista. Tutto
ciò che non era avanguardia mi passava accanto senza
sfiorarmi. Ora ritengo che l'integralismo sia il peggiore dei
mali. In questi ultimi anni ho scoperto molta musica che prima
snobbavo. I Beatles per esempio li ho ascoltati due anni fa. Mi
rendo conto di essere un po' fuori tempo massimo...
Intervista di Helmut Failoni
L'UNITA' 10/05/2002
Il grande
apolide della musica che il mondo ci invidia
Alla fine Enrico Rava lo ha
fatto davvero il Giro del giorno in ottanta mondi come
auspicava il titolo assai preveggente del suo primo disco, uscito
giusto tre decenni fa. Il 21 aprile scorso il trombettista ha
ritirato a Copenaghen il Jazzpar Prize, il più prestigioso
riconoscimento internazionale per un jazzista.
Il viaggio di Rava iniziò
prima dell'uscita di quel suo straordinario disco. Verso il '65
era scappato da Torino, prima Londra, poi in Argentina, poi a New
York. Il jazz, quello vero, l'aveva chiamato senza appello, come
una forza della natura. Un richiamo profondo, lancinante,
avventuroso. Per Enrico Rava, figlio recalcitrante della
borghesia torinese, il jazz fu l'avventura della vita, una lunga
avventura che dura ancora, oggi più di ieri. Questo è
infatti un anno di consacrazioni per l'autore di veri e propri
classici del jazz contemporaneo, da L'Opera va a Rava
Carmen, da Rava Noir a Dolce Vita, giudicato lo
scorso mese dai critici americani uno dei migliori dieci dischi
usciti negli Stati Uniti nell'ultimo anno. Prima del premio
danese, a fine marzo, il ministro francese per la cultura
Catherine Tasca ha insignito Rava dell'onorificenza di Cavaliere
delle Arti e delle Lettere. Esce in questi giorni da Label
Blue la prima di tre registrazioni live effettuate lo scorso
luglio a Montreal: un appassionato omaggio a Miles Davis, con
Rava e Paolo Fresu in stato di grazia. Ancora un volta in questo
cd, si ascolta un uomo completamente trasfigurato nella sua
musica, un leader prodigiosamente carismatico, un poeta
funambolico della tromba. La tromba che con Rava diventa voce
umana, spasimo interiore, malinconico sorriso; quella canto alla
Rava che non è solo il suono sgorgante dalla campana
argentata della sua Vincent Bach, ma il modo stesso di affrontare
la vita nella musica. Rava ha attraversato diverse stagioni del
jazz moderno restando sempre fedele a un'idea precisa, o meglio,
a un amore: la melodia. Anche quando insieme a Steve Lacy e Carla
Bley, sguazzava fino al collo del free-jazz, Rava inseguiva
segreti, inconfessabili desideri di melodia. Amava
svisceratamente la musica brasiliana, il tango, le vecchie
canzoni americane e francesi. Il free, per Rava, fu
il biglietto d'ingresso per il suo viaggio, ma già a
principio degli anni '70 la sua musica si screziava di venature
diverse, si apriva a colori più dolci, si autotradiva. Nel
Giro del giorno Rava è un musicista diverso da
quello che gli appassionati americani e italiani dell'epoca
conoscono: è un apolide del jazz che lancia un ponte tra
due mondi e rompe con il passato: tutti i dischi successivi,
compresi quelli della stagione Ecm (The Plot,
The Pilgrim and the stars, Quartet), vanno
via via definendo i contorni di un artigianato autenticamente
libero, fuori dai cliché della stagione informale.
Bossa-nova, forma canzone, tanghi, funky, swing: la musica di
Rava prende forma, si solidifica, affascina e seduce. Quando alla
fine degli anni '70 torna in Italia, scegliendo la Liguria come
rifugio, il suo successo non è più in discussione.
I suoi dischi, come i film di Aldomòvar, sulla copertina
portano soltanto il suo cognome, quasi una griffe, un marchio di
fabbrica. Un destino unico nel panorama jazzistico europeo,
costruito mattone su mattone, scelta dopo scelta, rinuncia dopo
rinuncia. Come quando, a New York, stracciò un contratto
della Paramount che voleva farne un esotico rappresentante del
jazz-rock commerciale ricoprendolo di dollari. Il ritorno in
Italia è da questo punto di vista la riconquista delle sue
passioni e, contemporaneamente, l'inaugurazione di una fase di
nuovo sviluppo. Rava scopre talenti (Urbani, Fresu, Di Castri,
Gatto, Bollani). Oggi, quando non guarda il golfo del Tigullio
dal piccolo, luminoso terrazzo della sua casa, Rava è in
viaggio con le sue trombe, custodite in una lussuosa borsa di
cuoio. Quello che qualcuno anni fa aveva definito il
trombonauta ha fatto più che percorrere
chilometri e incidere dischi, ha allargato i confini di questa
musica, che oggi si nutre di tutto e sa conservare il prezioso
sapore del passato. Rava conosce la ricetta e ancora la serve in
tavola.
Alberto Riva L'UNITA'
10/05/2002
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