Fatmir Koçi, regista
albanese, classe 1959 è uno dei due cineasti della
generazione di mezzo del paese balcanico (l'altro è
Georgij Xhuvanj) che hanno avuto i maggiori riconoscimenti
internazionali. Cresciuti sotto il regime del partito di Enver
Hoja, hanno raggiunto la piena maturità artistica quando
il regime stesso è crollato e l'Albania è entrata
in una fase di trasformazione e di disordine. A Koçi il
terzo Tirana International Film Festival, conclusosi da qualche
giorno, ha dedicato una breve rassegna che comprendeva il
cortometraggio Il terzo (1988), il film Ballada
attraverso le pallottole (1989) e l'acclamato Tirana Anno
Zero (2001). È da questo film, selezionato a Venezia
nel 2001 e vincitore nello stesso anno del Festival di Salonicco
che parte la nostra conversazione con Fatmir Koçi.
Partiamo
da quell' anno zero che dà il titolo al suo
film
Era l'ottobre del 2001 quando il film è
stato mostrato per la prima volta in Albania. Qui ha avuto
un'ottima accoglienza, mentre ha sollevato moltissime critiche e
polemiche nella diaspora albanese. Tra loro c'era una nostalgia
per l'immagine di un paese che ricordavano e quello che io
mostravo non corrispondeva a quell'immagine. Per la prima volta
vedevano un volto dell'Albania non piacevole e lo vedevano
mostrato anche a degli stranieri. Va detto che questo tema,
l'emigrazione, ha toccato l'Albania in una maniera che non ha
precedenti in nessun paese del mondo in nessuna epoca storica. In
meno di cinque anni ha lasciato il paese un milione di persone su
una popolazione di poco più di tre milioni.
Nel
suo, come in altri film albanesi contemporanei, c'è
l'onnipresenza dei bunker, di cui l'Albania è
disseminata.
Ce ne sono oltre 250 mila. Io stesso ho
dovuto costruire bunker da ragazzino, ed era un lavoro duro. Ma
nel mio film il bunker (che viene acquistato da uno straniero e
spedito in Germania) è anche il segno della nostra
ambivalenza verso tutto quanto è straniero che è o
miracoloso o qualcosa che non ha nessun valore. Non ci sono vie
di mezzo: o l'adesione fanatica o il rifiuto secco. È
quello che è successo con Stalin. Idolatrato e mai
denunciato in Albania, unico paese comunista che non ha
conosciuto una de-stalinizzazione. Ma il bunker è anche
simbolo di una prigione in cui ti devi rinchiudere. Lì e
solo lì c'è la ragione della colossale fuga dal
paese dopo la fine del regime.
Il film era anche una
riflessione sul passato. Come è andata avanti quella
riflessione negli anni successivi al film?
A livello
di cinema ce n'è stata molto poca. Ma quella sul passato è
una riflessione che investe e attraversa ancora tutte le famiglie
albanesi. Anche mia madre dice che sotto la dittatura comunista
c'era «la pace» che adesso non c'è, e per lei
è difficile ricordare che era una pace imposta con la
paura. Per altro verso, gli ultimi vent'anni di regime sono stati
un vero trionfo dell'assurdo e del grottesco. Dentro questo c'è
stato un scontro generazionale che è in parte ancora
aperto.
Esiste una nuova generazione di filmmaker
albanesi?
Io appartengo a una generazione cresciuta
sotto il regime, dove però si facevano in media 14
lungometraggi ogni anno negli studios di Tirana. Erano film di
propaganda, rigorosamente divisi per «temi»: i
bambini, le donne, i soldati, i contadini, ecc. Ma per i giovani
aspiranti registi c'era anche la possibilità, alla seconda
settimana di scuola di cinema, di iniziare a girare in pellicola
35 mm. bianco e nero. Il primo film l'ho fatto a 25 anni. Dal
partito è stato bollato come «pacifista»,
perché pur essendo ambientato nella seconda guerra
mondiale non si vedeva neanche un soldato tedesco che veniva
ammazzato. Ma eravamo verso la fine del regime e io non ho avuto
alcuna conseguenza personale, il film è rimasto bloccato
per nove mesi ma è stato poi mostrato al festival
ufficiale del cinema ed accolto bene. Nella mia generazione c'è
solo Georgj Xuvanj e Arkan Minarolli. Dietro, il vuoto.
E
lei sta per girare il suo terzo film...
Inizierò
a maggio, è un progetto finanziato con soldi albanesi,
francesi belgi e tedeschi. Sarà girato interamente in
Albania. È un adattamento dell'opera di Ismail Kadarè,
L'Anno nero. Un film ambientato nel 1914. Il tema è
la tolleranza religiosa e la libertà di scelta. Abbiamo
una tradizione medievale chiamata Kanun, simile alla
vendetta praticata nel sud dell'Italia. In sostanza, l'obbligo
tradizionale che è fatto agli individui di risolvere ogni
offesa con la vendetta, senza alcuna fiducia nella legge e nella
possibilità di affidarsi alle istituzioni. Ovviamente
questo era, ed è, un grosso ostacolo alla formazione di
una società civile. Ma è anche un film sulla
tolleranza religiosa, i protagonisti sono un giovane musulmano e
una ragazza cattolica, c'è un tentativo di mettere in
competizione le religioni, ma nessuna può vincere.
Come
vede il futuro del paese?
Sta succedendo che il 25-30%
di quelli che erano scappati sono rientrati o stanno ritornando.
Il paese ha avuto un altro trauma con l'ingresso quasi istantaneo
nel mondo globale e nella società dei consumi. Oggi le
cose iniziano a cambiare. Si vede anche dal ruolo che iniziano a
giocare gli intellettuali, praticamente emarginati fino al 2001.
Cresce un interesse per la cultura, e cresce una sensibilità
civile, soprattutto tra gli emigranti di rientro. Forse si inizia
a capire quello che cercavo di dire in Tirana anno zero e
cioè che è inutile scappare, che la malattia di una
nazione va guardata in faccia se la si vuole curare.
Intervista di Andrea Rocco
IL MANIFESTO 20/12/2005
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