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L'UNITA' – 07/08/2002

Con Fruttero & Lucentini ho scoperto che si può scrivere per la gente

 

Io, La Donna della Domenica, l'ho letto di nascosto quando avevo tredici anni. All'epoca facevo letture monografiche: tutti i russi, tutto Kafka, tutto Mann, tutto Pavese ecc. Una fatica bestiale. Leggevo sempre. Ogni estate, quindi anche quella 1973, andavo al mare in un posto che oggi è molto trendy, ma allora era poco più che un villaggio. Lì c'era un emporio dove si vendevano dai chiodi agli animali vivi. E qualche libro: Liala, Spillane e Fruttero & Lucentini. Così' comprai La Donna della Domenica che era l'unico libro presente che non avesse almeno cinque anni. Quello che mi incuriosiva, in quella stagione di letture iniziatiche era che due autori italiani viventi, allora a me assolutamente sconosciuti potessero raggiungere la capillarità distributiva di un autore straniero ed arrivare fino ai confini dell'impero, in un buco della costa nuorese, e quando si parla di costa nuorese nel '73, scordatevi la Costa Smeralda, allora era lontana come i Caraibi. Comunque il gestore dell'emporio di cui sopra aveva la presunzione di scegliere per il suo negozio solo quei libri che era certo di poter vendere. Quando si accorse che avrei comprato La Donna della Domenica, mi guardò con sospetto, e mi chiese se non ero troppo giovane per leggere “quella roba lì”. Io, che non sapevo che cosa avevo comprato veramente, balbettai una specie di scusa e mentii: dissi che lo compravo per mio padre. L'uomo mi guardò con l'accondiscendenza di certi edicolanti quando ti mimetizzano la rivista pornografica dentro al giornale degli annunci immobiliari ed io uscii da quel posto convinto di avere fra le mani il libro più peccaminoso del secolo. Lo lessi avidamente, quasi senza leggerlo, e a parte una certa pruderie, l'effetto “gorgo del peccato” fu assolutamente scadente.

Ma dentro al mio animo integralista e anche un poco bacchettone qualcosa era successo. Fino a quel momento per me la letteratura era una cosa marziana, una di quelle cose a cui si accede per predestinazione, l'idea che mi ero fatto era che uno scrittore fosse una specie di sacerdote che comunicava direttamente con l'aldilà. La letteratura parlava di grandi temi: vita, morte, amore. E quei grandi temi erano ancora più grandi se trattavano la Storia e se l'autore era defunto. Questo libro parlava pressappoco dei giorni nostri, era ambientato in Italia ed era un giallo. Questa era la perversione, altroché le scappatelle del Commissario Santamaria! Avevo letto un giallo, e senza passare da Agatha Christie. Tuttavia i grandi temi c'erano tutti e la scrittura pure. Considerate nell'ordine che: Torino, per quanto mi riguardava era la capitale del regno di Sardegna; che il contatto più stretto che avevo avuto con la polizia italiana era stato vedere i caschi blu che venivano paracadutati sul Supramonte; che nel '68 ero in quinta elementare. La Donna della Domenica fu devastante per me inconfessato scrittore in pectore e lettore snob. Intanto perché, anche se allora non lo avrei ammesso mai neanche sotto tortura, mi era piaciuto, e mi era piaciuto parecchio. Poi perché mi aveva fatto capire che i miei zoppicanti tentativi di scrittura erano viziati da modelli troppo estranei alla mia esperienza. L'idea, cioè che si potesse parlare di vita, morte, amore anche nella Torino rampante della fine degli anni sessanta. E che dentro quella Torino c'era tutta un'Italia di lavoratori, una babele di lingue e idee del mondo. E c'era un Caronte, il siciliano Santamaria, che poteva vedere quel mondo da dentro e da fuori contemporaneamente, capendone le difficoltà, stigmatizzandone le chiusure, prevedendone le difficoltà. Da un punto di vista borghese La Donna della Domenica, corrispondeva a quello che sarebbe stato Treviso-Torino di Scola (al cinema) per il punto di vista operaio. La città era la stessa, i temi si assomigliavano, ma i dati di partenza erano talmente apposti da sembrare inconiugabili. Tuttavia entrambi avevano scelto, e si erano sviluppati in un ecosistema popolare: il giallo per il romanzo, il neorealismo per il film.

Insomma ho smesso di dolermi per non essere nato nella mitteleuropa dell'ottocento o nella Russia zarista e ho capito, anche grazie a un giallo, che se proprio volevo fare lo scrittore era meglio che scrivessi di quello che avevo sott'occhio. In quest'epoca di scuole di scrittura creativa parrebbe un dato acquisito, ma io ho dovuto fare da solo.

Ecco: scoprii che si poteva leggere per dovere, ma anche diletto. Scoprii che ci sono gialli e gialli. Scoprii Gadda e Scerbanenco che avevo sempre guardato con sospetto, scioccamente. Molti anni dopo, quella sorpresa non l'ho mai dimenticata. E cercando di capire che scrittore volessi diventare ho ripensato spesso a quell'estate del '73 e a quei due che avevano scritto “quella roba lì”. Ho capito innanzitutto che se Fruttero & Lucentini erano giallisti, se Sciascia era giallista, se Gadda lo era stato, allora forse essere definito giallista non era poi così male. Come non era male l'idea, sottesa, ma neanche tanto, che si potesse raggiungere l'obiettivo di scrivere un romanzo senza la paura che venisse letto. Sì perché a leggere le terze pagine dei giornali di allora si poteva pensare che gli unici libri veri fossero quelli che nessuno poteva o voleva leggere. Popolare era un termine orrendo. Andava il romanzo sull'impossibilità di scrivere romanzi, e andava, ma ancora sopravvive, la teoria della morte del romanzo. La morte del romanzo per l'appunto era un must che poteva fare a gara con la minigonna. Insomma l'equazione era: troppi lettori pessimo romanzo, ma la cosa buffa è che questo valeva solo per gli italiani: Loriano Macchiavelli era robaccia da stazione, Sidney Sheldon, al contrario era uno scrittore, o una scrittrice? E' possibile che questa equazione sia stata vera, anzi, in qualche caso, è vera tutt'ora: il pericolo del pecoreccio contro il popolare è sempre dietro l'angolo, basta accendere il televisore. Ma, diciamocela tutta, fino a tutti gli anni '80, tranne alcune straordinarie eccezioni, gli autori italiani si leggevano per dovere: Quelli garantisti, intendo, perché gli altri: Delfini, Fenoglio, Buzzati e chi ne ha più ne metta, semplicemente non si leggevano. Se ti chiamavi Rossi o Esposito gli editori si mettevano le mani nei capelli. Ma Fruttero & Lucentini andavano in classifica. Poi arrivò Eco, direttamente dal gruppo 63, e fece il giallista anche lui. Il resto è noto. Il Gruppo 13, i Cannibali, il ciclone Camilleri...Giallisti? Chi se ne frega. Tutti straordinariamente provinciali, tutti a scrivere “quelle cose lì”. Lucentini e Fruttero sono entrati recentemente, insieme a Simenon, nel gotha degli autori che possono essere pubblicati per la letteratura e non per la gente. Per la letteratura La Donna della Domenica costa una cifra pazzesca, ma questo è il prezzo che bisogna pagare per liberarsi dal marchio, ancora infamante per alcuni (sempre meno fortunatamente) di giallista. Io resto fedele alla mia edizione economicissima del '73. E all'idea che in letteratura gli autori sono i libri che scrivono non gli editori che li pubblicano. E, tantomeno, i pregiudizi che li circondano.

Marcello Fois – L'UNITA' – 07/08/2002



Franco Lucentini

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