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Un argentino su quattro ha origini italiane

Un argentino su quattro - dieci milioni di persone su quasi quaranta milioni di abitanti, dunque - ha origini italiane. Tra i discendenti dei nostri emigranti i liguri rappresentano una consistente entità. I figli, i nipoti e i pronipoti di quei coraggiosi pionieri che si spinsero all'avventura in cerca di lavoro e fortuna e attraversarono l'Atlantico in epoche diverse, oggi sono presenti nei quadri dirigenti della grande nazione, ai vertici delle istituzioni, nelle banche, nelle industrie, nelle aziende, nell'industria e nell'agricoltura. I liguri trapiantati in Argentina hanno guadagnato molte posizioni nella scala sociale, si sono fatti apprezzare e hanno contribuito con la forza delle loro idea alla crescita di un Paese potenzialmente tra i più ricchi del globo.

L'Argentina rimane alle prese con enormi problemi di produzione e distribuzione del reddito, squilibri sociali, gravi inefficienze amministrative e una diffusa corruzione. E tuttavia sta risollevandosi dalla catastrofica situazione provocata dal default del 2001, vale a dire il crollo dell'economia prodotto dall'impossibilità di fronteggiare l'enorme massa del debito estero. Se la ripresa è in corso lo deve anche all'energia, allo spirito di iniziativa e alla laboriosa tenacia con la quale i discendenti dei liguri continuano ad operare. Leali cittadini della Nazione in cui vivono ma fedeli custodi delle tradizioni e dello spirito della terra dei loro padri e antenati.

Il Secolo XIX ha compiuto un lungo viaggio in Argentina, alla ricerca dei discendenti della terra di Liguria. Li ha rintracciati e incontrati a Buenos Aires, la capitale federale, dove la loro prima presenza risale a quasi due secoli fa. La Boca - il quartiere portuale e marittimo per eccellenza - è stato edificato e fatto ricco, grande e famoso nel mondo dal lavoro della nostra gente di mare che proveniva in maggioranza delle due riviere.

Tito Banchero, il figlio minore del fondatore del locale, don Juan Banchero, viaggia verso i novanta e qualche volta compare nel locale, accolto come il patriarca che è. Alle pareti dello spazioso locale che è. Alle pareti dello spazioso ristorante – tavoli e sedie in legno – sta appesa un pezzo di storia. Primo Carnera occhieggia imponente sul muro accanto alla cucina e all'angolo, oltre il grande murale dipinto da Quinquela Martin – una gloria della Boca – Tyron Power stringe sorridente la mano di Juan Banchero. Il forno a carbone e legna è sempre lo stesso, enorme e piastrellato in bianco; non marcia più a legna ma a gas e i risultati non sono disprezzabili.

Giusto è un giovanile signore di 79 anni, è in Argentina dal 1948 e ci ha anche trovato moglie. “Si chiama Erminda De Cia, il padre era di Finalmarina ma lei è nata qui. Parlava soltanto lo spagnolo e io il genovese. In qualche modo ci siamo intesi, difatti stiamo insieme da più di 52 anni”. Ridacchia sotto i baffi, o scio Giusto, varazzino purosangue che proclama orgogliosamente di sentirsi “prima genovese e poi italiano” e annuncia di non aver mai preso la cittadinanza argentina. “So io i lavori che ho perso per questo, a cominciare dalle licitazioni private e gli appalti col governo...”. Da dieci anni Giusto presiede la “Asuncion Ligure de Socorros Mutuo”, data di nascita, domenica 1 febbraio 1885, nella lista dei sedici fondatori compaiono cognomi schiettamente liguri: Pescia, Maggiolo, Musso, Montegriffo, Grondona, Taliasco, Dodero, Pagano, Garaventa, Anselmi, Gandolfo, Medica e Canevaro, oltre a Onorato, Rovereto e Medica di più incerta radice. Dalla primitiva sede di calle Olivarria 361 – 383, quando i soci erano 700, alla nuova casa in Suarez 676, sempre alla Boca ovviamente, è trascorso oltre un secolo, un mondo è nato, cresciuto, è tramontato.

Le piccole case in lamiera, legno e mattoni innalzate dai primi pionieri zeneizes, dipinte a colori vivaci, con i balconcini alla ligure sopravvivono ma sono aggredite dall'incuria, cortili abbandonati affondano nella sporcizia, solo qua è là nel barrio xeneixe spuntano costruzioni riverniciate e si aprono le vetrine delle nuove botteghe.. Ma sono gocce nel mare, il tratto generale della Boca è sconfortante e non conserva che tracce sbiadite della vivacità di un tempo. Gli abitanti sono in genere di modestissima condizione, diseredati che hanno trovato asilo nelle abitazioni abbandonate, occupandole abusivamente. “Un tempo alla Boca si girava tranquilli, c'era la musica in strada, la gente si conosceva. Oggi se metti il piede nel posto sbagliato prendi delle legnate...”

I liguri superstiti della Boca sono in genere vecchietti che hanno perso il genovese, anche per mancanza di interlocutori. Si aggirano, smarriti, inciampando sulle pietre sbrecciate dei marciapiedi; eccone uno venirci incontro, Giusto lo abbraccia con affetto, gli parla in castigliano, poi quando si è allontanato mi sussurra. “Ha appena perso la moglie. Va in giro senza sapere dove...Un tempo qui erano tutte botteghe, magazzini, cantieri, scali, botteghe di calafati e di forniture navali”, aggiunge, brandendo il braccio a semicerchio fino al mare. I maestri d'ascia erano decine e tutti liguri, delle due Riviere. Le generazioni successive avrebbero prodotto altri frutti. Pittori, scultori, musicisti, letterati, giornalisti.

“Quando arrivai alla Boca si sentiva parlare solo il genovese, lo imparavano persino i gallegos, gli spagnoli, ricordo un “garsonetto” di panetteria, spagnolo di nascita, lo parlava alla perfezione”. Quel tempo è tramontato, ma l'orgoglio e la coscienza delle radici sopravvivono. Alla “Socorros Mutuos” i soci sono 400, in maggioranza anziani, gente che ha lasciato la Boca eppure ci torna, cocciuta, per respirare l'aria antica e osservare le banchine gremite, un tempo, di velieri e poi di vapori. I “barchi”, lo chiama Giusto, erano principalmente italiani e spesso genovesi e il via vai di carri, birocci, carrette, cavalli era infernale, proprio come oggi il traffico pesante dei tir con i container che attraversa il cuore del barrio diretto alla scalo merci ferroviario accanto alla “Bombonera”, il mitico stadio del Boca Juniors che torreggia, dipinto di giallo e blu come tutto, lì attorno, svettando fra mucchi di case, proprio come il “Luigi Ferraris”.

I centoventi anni tondi dell' “Asociacion Ligure di Socorros Mutuo” sono stati fastosamente festeggiati sabato 9 aprile scorso con un pranzo colossale nella bella sede di Suarez 676. Il cartoncino ufficiale del pranzo sociale porta in copertina la Lanterna, “en el corazon de los ligures”. Alle pareti della sede, le foto di due fondatori negli ovali, un diploma rilasciato dalla società musicofila Josè Verdi, di Buenos Aires, la foto autografa di Garibaldi, un ritratto di Giuseppe Mazzini, i due aedi del risorgimento italiano campeggiano, effigiati in busto con Cristoforo Colombo, nel salone d'onore, dove spiccano la bandiera dei Liguri del mondo, della regione Liguria e naturalmente il tricolore italiano, la bandiera azzurra e bianca della repubblica Argentina e il vessillo bianco con la croce rossa della repubblica di Genova. “Siamo in stretto contatto con Giuseppino Roberto, presidente dei Liguri del mondo – racconta Giusto – dalla Regione Liguria riceviamo un contributo annuo di 2.500 euro, ora che è cambiata la maggioranza politica spero che quell'aiuto venga riconfermato e magari aumentato. C'è rimasto tanto da fare, è cambiato il mondo ma le famiglie bisognose alla Boca esistono sempre e per quel che possiamo noi diamo una mano...”. Sulla scrivania una pila di copie del Secolo XIX, il legame con la patria lontana si nutre dovunque.

Si chiacchiera, naturalmente in zeneize, “perché con l'italiano faccio fatica...”, si schermisce Giusto, e dalla storia personale di questo perfetto esemplare della ligusticità laboriosa e tenace, salta fuori l'epitome dell'immigrazione ligure in Argentina. Giusto è arrivato con l'ultima ondata, seguita alla fine della seconda guerra mondiale. L'Argentina aveva bisogno di braccia e non solo l'Argentina, anche il Cile, l'Uruguay, la Bolivia, il Perù assorbirono grandi numeri di immigranti dall'Europa. I primi italiani a mettere piede sulle rive ancora vergini del rio della plata furono i fuoriusciti carbonari e mazziniani sfuggiti alla mannaia della repressione dopo i moti del 18030/31. L'onda lunga dell'immigrazione povera giungerà fra la metà del XIX secolo e i primi del Novecento.

Ma torniamo a Giusto. Arriva da Varazze, solo, sul Giulio Cesare nel '48. Ha 21 anni. Era scampato alla coscrizione obbligatoria decretata dalla repubblica sociale salendo in montagna con i garibaldini della brigata partigiana “Della Vecchia”, nella zona del Beigua: “ero ragazzo, mi adoperavano come staffetta. Finita la guerra, trovai lavoro, ero fabbro alla Castelli di Savona, aggiustavamo vagoni ferroviari. Prima della guerra avevo già fatto qualcosa con mio padre, Giobatta, ai cantieri Baglietto di Varazze. Non ero contento e sapevo che mi sarebbe toccato di fare il servizio militare, così un giorno andai da mio padre e gli dissi: vado via, in Argentina. Lui fece una faccia storta e mia madre, Caterina Accinelli, si fece dei gran pianti...Sono partito, ma è triste stare da soli in terra straniera...”.

Il vocione si incrina, lacrime furtive spuntano dietro gli occhiali, Giusto scavalca la commozione: “Arrivato a Buenos Aires ho affittato una stanzetta, non sapevo neppure dove posare i piedi tante erano le cucarachas, gli scarafaggi. Quando mi sono sposato con mia moglie abbiamo vissuto per anni in una casa senz'acqua corrente, luce elettrica, senza stufa e col cesso in cortile. Ma piano piano...” Con la cocciuta tenacia dei liguri, Giusto scala diversi gradini nella scala sociale. Alla fine dei Sessanta, con tre figli a carico, sarebbe benestante se non si ritrovasse rovinato da uno sfortunato soggiorno di sette anni a Mendoza. “Non ne parlo volentieri. Ho perso tutto...”.

Torna a Buenos Aires e ricomincia daccapo. Ha un diploma di perito industriale, ormai conosce il Paese e la lingua, ma fa comunque fatica. Inizia dando una mano ad un amico che gestisce un emporio. Si mette a disegnare modelli di selle, escogita un sistema inedito per tradurli in opera finita e diventa imprenditore. “Se la ricorda la serie televisiva Bonanza? Beh, le selle dei cavalli erano tutte di mia progettazione. E fornisco selle e finimenti ai Granaderos San Martin, un corpo scelto dell'esercito. Oggi ho due fabbriche, nella capitale federale, occupo una trentina di operai ed esporto in mezza Europa, soprattutto in Germania. La ditta l'ho chiamata Ciazé che in dialetto varazzino significa pascolo, prato. Era il soprannome di mia nonna buonanima che portava le bestie al pascolo. Oro ho lasciato gli affari a mio figlio che si chiama Mario come me. L'altro figlio, Victor Juan, il primogenito, realizza le finiture delle selle, ma si occupa d'altro. Con la moglie ha una scuola di tango e folklore argentino in Galeria Pacifico, nel centro di Buenos Aires. Il terzo ragazzo, Carlo Alberto, è architetto e lavora in proprio. Mi ha progettato e costruito dei miniappartamenti su un mio terreno qui alla Boca. Per ora non li,affitto, ma verranno bene un giorno, i prezzi degli affitti galoppano...Ho sette nipoti e un bisnipote, vivo con mia moglie in una casa di 340 metri quadrati, a tre piani e attorno tengo l'orto. No, non è alla boca, lì non ci ho mai vissuto. Mio figlio mi ha fatto scaricare cinque camionate di terra nell'orto così è venuta fuori una soletta di terra alta mezzo metro e io faccio meno fatica a coltivare basilico, la radicetta, le sioule, le cipolle, le melanzane genovesi, quelle piccole, la persa (maggiorana) e la cornabuggia (l'origano) dell'Alpicella e le tomate, i pomodori. Le sementi le ho portate dall'Italia in barba alla dogana argentina che non lascia passare neppure una pianticella”.

Mai pensato di tornare a Vaaze, Varazze, scio Giusto? “Sono tornato tante volte, l'ultima con mia moglie e sull'aerreo nel cielo di Genova abbiamo preso una gran tempesta di vento, e lei ha giurato: “In aereo in Italia non ci vengo più”. Io invece non ho paura, ma il problema è che non ho quasi più nessuno da visitare”. Nessun parente? “Oh sì, mio fratello Aristide ha 85 anni e vive a Varazze, mia sorella Elena ne ha 92 ed era venuta lei in Argentina, poi ci sono nipoti e cugini. E' viva anche un'altra mia sorella ma lasciamo perdere...” Giusto si acciglia, si gratta la fronte con le dita che sembrano le “cannette” del gas di una volta. “degli allievi del collegio, eravamo ottanta, e degli amici di Varazze siamo rimasti in due. L'Anselmo se n'é andato da poco e un mese fa qui è morto anche Bacin Craviotto, detto Perseghini. Gli altri li vado a trovare al cimitero, dove trovo anche mamma e papà e non mi sembra ancora vero di vederli lì. Ma se lo ricordi. Mi sun zeneixe, non argentino”. Questa non l'ha già detta, pardon cantata, qualcuno?

Renzo Parodi – IL SECOLO XIX – 26/04/2005


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