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Ecco gli ultimi carboneros

Il berretto calcato in testa, sempre vestito di grigio o di blu scuro, spesso col grembiule. Trascinava a braccia un carretto a due stanghe per le strade polverose di Buenos Aires che le piogge trasformavano in fiumi di fango. Pochi potevano permettersi l'aiuto di un cavallo. Lo trovavi nella sua botteguccia, al pianterreno delle misere case dei barrios più antichi: Belgrano, La Boca, Pompeya, Flores, Liniers. Il pavimento era in terra battuta, sul rustico tavolo stava appoggiata la bilancia a due piatti. Tutto attorno cumuli di legna tagliata corta per le cucine domestiche e mucchi di carbone di legna destinato ad alimentare i bracieri per cuocere l'asado, il piatto nazionale argentino. Ammucchiati contro le pareti disadorne sacchi di mais e di mangime per galline, borse di cipolle e di patate, nere e bianche. Ai muri scrostati pendevano interminabili trecce d'aglio. Così dovevano apparire - nell'ultimo scorcio dell'Ottocento e nel primo del XX secolo - un carbonero, un rivenditore di carbone, la sua bottega con le povere cose e gli attrezzi del suo ingrato lavoro. A Buenos Aires - che nel 1869 contava 71.403 stranieri, più della metà dei quali arrivati dalla Liguria - hanno lavorato fino a cinquemila carboneros, per lo più di sangue ligure. Sessant'anni fa erano ancora 3.500. Oggi sono rimasti in tre. I liguri provenivano tutti dalla Val Graveglia, un'angusta e povera (all'epoca) terra collinosa alle spalle di Lavagna, e dalla zona di Isola del Cantone e Novi Ligure.

Serio, di poche parole, rassegnato alla fatica fisica che egli stesso o i suoi genitori avevano già conosciuto dissodando l'avara terra ligure, il carbonero, anzi il "carbunin", discendente dai contadini del nostro Appennino si guadagnò fama di uomo affidabile e crebbe nella considerazione degli argentini. Ma la sua condizione restava estremamente disagiata ed esposta a ogni avversità. In una società totalmente priva di garanzie sanitarie e previdenziali non era raro che uno di loro, ammalandosi, perdesse in pochi mesi tutto ciò che aveva accumulato in anni di fatica. Col trascorrere del tempo maturò quindi l'idea di creare un Associazione di difesa degli interessi della categoria. Non fu facile convincere ad associarsi quella gente diffidente per natura, abituata a contare soltanto su se stessa, di poca o nessuna cultura, che si esprimeva in un genovese infarcito di espressioni castigliane. Il 10 marzo 1901 nacque infine la Sociedad Cosmopolita Carboneros Unidos e quel "Cosmopolita" stava a significare che le porte erano aperte a tutti i carboneros, liguri e non. Primo presidente fu Francisco Debarbieri, ma il vero animatore fu Luis Bettinotti. I soci si contavano nel numero di 59. Un peso per il diritto di ammissione e un peso al mese era tutto ciò che veniva loro richiesto. In cambio la Sociedad (Asociacion dal 1929) difendeva i diritti degli associati, vigilava sulla correttezza dell'imposizione fiscale a loro carico, interveniva con aiuti in caso di malattia del socio o di fallimento della sua impresa, offrendo sostegno economico alla sua famiglia.

Tra i primi soci figurava don Manuel Chinchella, carbonero ligure, che nel marzo 1890 raccolse alla Casa Cuna (un ospizio per trovatelli) e adottò un bimbetto di pochi mesi, già battezzato, diceva il biglietto che lo accompagnava, col nome di Benito. Benito Quiquela Martin sarebbe diventato il pittore prediletto della Boca, che raffigurò in decine di quadri con nitido tratto verista, e uno degli artisti più apprezzati d'Argentina. Nel 1997 la Asociacion ha modificato la ragione sociale in Asociacion Genovesa Argentina Carboneros Unidos. Il richiamo alla genovesità afferma il desiderio di rinsaldare le antiche radici. L'arrivo in città del gas in bombola, negli anni Settanta del XX° secolo, aveva già decretato la loro inesorabile scomparsa. I carboneros superstiti a Buenos Aires sono tre e due sono liguri. Adelbo Brignardello, 78 anni, emigrato a Buenos Aires da Arzeno (in Val Graveglia) nel 1947 è titolare della Carboneria Ligure di Pasco 281. Antica è anche la ditta dei fratelli Agustin e Cesar Rissetto (anche loro emigrati da Arzeno), proprietari della carboneria el Buen Trato, di Luna 412. La sede dell'Asociacion è in Venezuela 2943, quartiere Once. La costruzione è vecchia ma ha una certa pretesa di eleganza. I soci hanno tutti i capelli bianchi, relativamente giovane è il presidente, Valerio Pessagno, 60 anni, farmacista figlio di un carbunin della Val Graveglia. Gli altri hanno tutti passato i settanta e addirittura gli ottanta ma sono animati da spirito gagliardo e riscoprono il gusto di conversare in genovese, lingua sconosciuta a figli e nipoti.

Italo Garibaldi, 82 anni, ha un fisico legnoso che testimonia le trascorse fatiche. “I nostri figli prendono strade diverse, nessuno fa più il carbunin, e si disperdono nella megalopoli argentina”. Due volte vedovo, senza figli, Garibaldi si è votato alla difesa delle tradizioni degli avi. E' un fervente devoto della vergine Maria che, come in Liguria, anche qui è oggetto di venerazione popolare. “Siamo anelli di una catena religiosa. Le nostre chiese ce le siamo costruite e ora dobbiamo tenerle in piedi”. I Carboneros sono diventati l'anima della Confraternita dei Portacristi di Buenos Aires (ce ne sono anche a Rosario e nella pampa di Arroyo Seco) che tramandano l'antichissima tradizione delle Casaccie liguri, al Santuario di N.S. della Guardia (al Bernal di Buenos Aires e a Rosario), al Santuario di N.S. di Montallegro (al barrio Once della capitale), alla Misericordia, la chiesa dei savonesi (nel barrio Congresso), all'Assunta di Arroyo Seco, nella provincia di Santa Fè. “I nostri Cristi pesano 75-80 chili, tanto basta per spezzarsi le schiene”. Servono braccia giovani e gagliarde per rimpiazzare gli anziani.

Garibaldi era arrivato in Argentina il 3 novembre 1948, a 25 anni, lasciandosi alle spalle un pezzo di vita avventurosa, movimentata. Durante l'occupazione nazifascista non aveva risposto alla chiamata alle armi e si era dato alla macchia. Fu costretto a consegnarsi alle camicie nere quando Vito Spiotta, ras chiavarese della Rsi (fucilato dopo la Liberazione), fece imprigionare suo padre. “Ho preso un sacco di botte e mi sono fatto 73 giorni di prigione a Chiavari. Se sono ancora qui lo devo alla Madonna, per cinque volte ha impedito che il mio nome venisse sorteggiato fra i poveretti poi fucilati per rappresaglia”. Sei anni Garibaldi li ha trascorsi in seminario, nel dopoguerra è stato 23 mesi sindaco democristiano di Né, dopo Emilio Brignardello, il padre di Adelbo. “Ho fatti 104 comizi, ero in contatto con l'avv. Maggio, con Lazzaro Maria de Bernardis e altri maggiorenti della Dc. Avrei potuto fare carriera in politica”. Il padre, Giacomo era venuto in Argentina da ragazzino, nel 1886. "Vattene, sennò prima o poi ti tocca andare in guerra", aveva deciso il nonno di Italo. “Nelle famiglie numerose usava che qualcuno dei figli al riparo dalla leva militare. Diventato Santiago nella nuova patria, mio padre aprì una macelleria a Buenos Aires e ci rimase fino al 1912 quando la municipalità di Buenos Aires introdusse per tutti i commercianti l'obbligo di adoperare la bilancia. Nel '14 in Europa scoppiò la Grande Guerra e papà si guardò bene dal rientrare in Italia a buscarsi qualche fucilata. Tornò nel '21 e l'anno dopo sposò una nipote. Nel '23 nacqui io, mia sorellina nel '24 ma sopravvisse pochi mesi e mio fratello nel '28. Papà ha vissuto di rendita ed è morto nel 1947, a 74 anni. A noi due fratelli ha lasciato tre case qui a Buenos Aires ma questo è un discorso che non mi va di fare”.

Arrivato in Argentina aveva cominciato a lavorare come apprendista nella carboneria dello zio, fratello della mamma, arrivando a diventarne socio: “La ditta si chiamava Pratolongo y Valle, Valle era mio zio e Pratolongo veniva da Isola del Cantone. Gli affari erano andati benissimo negli anni Trenta, col tempo dal traino a cavalli si era passati ai camion, eravamo arrivati ad averne diciotto. La situazione precipitò quando il governo impose a tutti, privati e pubblici esercizi, di abbandonare il carbone per il gas naturale, che in Argentina abbonda. Liquidammo l'azienda e tutti i dipendenti e da allora io non ho più lavorato. Mi sono dedicato anima e corpo alla difesa delle nostre tradizioni che i nostri vecchi avevano portato da casa e difendevano tenacemente. Dovrebbe essere la Regione Liguria a venirci incontro come fanno altre regioni con le loro comunità all'estero. I meridionali sono furbi, i soldi sanno come procurarseli...”. Non è mai più tornato in Italia. “Troppi cattivi ricordi”, dice, brusco. Confessa di aver avuto paura della vittoria comunista nel 1948. “Se succedeva mi avrebbero appeso”, brontola. Nel 1975, come segretario della Union Genovese Madonna de la Guardia, Garibaldi vi fece confluire parecchi dei soci dei Carboneros Unidos, che hanno contribuito all'edificazione del santuario di Bernal (un rione della Grande Buenos Aires) dedicato alla Vergine apparsa a Benedetto Pareto. Ben 38 soci della confraternita mariana si iscrissero ai Carboneros.

Renzo Parodi - IL SECOLO XIX - 29/04/2005

La testimonianza Adelbo: “Ogni notte alle tre rifornisco pizzerie e ristoranti”

“Si lavorava con pale come questa, enormi e pesantissime...”. Adelbo Brignardello sorride, muovendo la pala come un tempo, sui mucchi di carbone scaricati dai carretti tirati da smunti cavalli che l'avevano prelevati ai moli, dalla stiva delle navi attraccate alla Boca. Convoca il nipotino più piccolo, Gianluca, figlio del figlio Sergio, e scherzosamente gli mette in mano l'attrezzo. Brignardello a quasi ottant'anni continua a lavorare nella carboneria di famiglia, fondata nel 1891 da suo nonno. Una reliquia. “Mi alzo tutte le notti alle tre ma non mi pesa. Ho sempre dormito poco. Non saprei stare con le mani in mano e poi ci vuole l'occhio del padrone sennò va tutto a gambe all'aria. Riforniamo di legna e carbone le Parrillas, i locali che cucinano l'asado su grandi bracieri, e le pizzerie, numerosissime, dove si mangia una pizza abbastanza buona, almeno per i gusti di qui”.

“La nostra carboneria sta a 400 metri dall'edificio del Congresso, oggi non ci darebbero più il permesso di aprirla in una zona così centrale”, osserva Lina Pessagno Brignardello, la moglie di Adelbo. Si sono sposati nel 1957 e la signora potè finalmente riunirsi al marito. Parlano ancora perfettamente il genovese con l'accento della Val Graveglia, dove hanno lasciato parenti e amici che tornano spesso a trovare. Il nonno di Adelbo, Emilio Ferdinando Brignardello, giunse in Argentina a fine del secolo XIX°. Prese terra dopo tre mesi di navigazione a vela, credeva di essere a Buenos Aires e invece era sbarcato in Africa... Nel 1923 è rientrato in Italia.

Bruno Monteverde, 68 anni, non parla il genovese, è nato in Argentina eppure sente il richiamo delle radici. La mamma e il fratello maggiore emigrarono a Buenos Aires da San Colombano Certenoli, primo entroterra fra Chiavari e Lavagna. Ha visto Genova e l'Italia per la prima volta nell'84 e ne è rimasto folgorato. “Quando sento parlare di Genova mi viene la pelle d'oca”, ride e dice che "Ma se ghe penso" lo fa piangere. E' in contatto con un cugino che lavora alla Carige e progetta un nuovo viaggio a Genova. Quasi nessuno dei soci superstiti dei Carboneros Unidos ha preso la cittadinanza argentina. “E' un errore - obietta Italo Garibaldi - Paghiamo le tasse e non influiamo nella vita nazionale”. Perché questa ostinazione? “Ci sentiamo italiani e ci teniamo a dirlo”. Corrado Rosasco ha 79 anni e l'aria furba di chi trova sempre una via d'uscita. Arrivò in Argentina da Gattorna nel '54, con la moglie, Giuseppina Carpaneto. Il figlio, Sandro Marcello, è giornalista. Carlotta Scarone è la tesoriera dell'Associazione. Discende dal celebre pittore Raul Soldi, di padre lombardo e madre ligure, Celestina Gugliemino, nata nella frazione di Pinceto, a Isola del Cantone. Mino Trabucco, 72 anni, partì da Lavagna 56 anni fa e adesso si dedica alla cura della Union genovese de la Madonna de la Guardia, che organizza pellegrinaggi ai santuari e l'attività delle Confraternita dei Portacristo. Il segretario dei Carboneros si chiama André Casella, parla solo il castigliano, fu suo bisnonno ad emigrare. Juan Arata e Juan Chiossi giunsero con l'ondata di emigranti del secondo dopoguerra. “Ormai è troppo tardi per fare la strada alla rovescia”, confessano.

Gli immigrati liguri e genovesi negli anni Trenta poterono ammirare a Buenos Aires gli artisti venuti da Genova. Non mancò Gilberto Govi. Mario Cappello si esibì assieme al celebre chitarrista Taracco, che poi morì e venne sepolto in Argentina. Collia dunde t'è?, di Cappello è una papucha, una variante del tango argentino, sentenzia, categorico, Garibaldi.

Renzo Parodi - IL SECOLO XIX - 29/04/2005


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