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CINEMA

Quindicianni fuori orario

Fuori Orario. Cose (mai) viste ha compiuto da poco quindici anni. Lo festeggiamo intervistando il suo autore/demiurgo, Enrico Ghezzi, che lo ha guidato, con un nutrito e vario gruppo di collaboratori, superando indefesso le cicliche tempeste della Rai e facendone un programma unico, nella formula. Nata grazie alla lungimiranza di Guglielmi, va in onda da sempre su Raitre a notte fonda, trovando nel fine settimana il suo nucleo centrale. Presentare Fuori Orario vuol dire percorrere i bordi frastagliati delle sue creste straripanti. Spesso si presenta con un programma sistematico, facendo tutto il cinema di Ozu, Rohmer, Vertov, Debord, Sokurov, Tsukamoto, Kitano. E poi Rossellini, Rivette, Godard, Dreyer. Altre volte esprime una cultura episodica, foraggiata dalle schegge, dalle eveline, dagli inediti, come le scene mai viste del Don Chisciotte di Welles, le 23 ore di lezione di Gilles Deleuze (in corso di edizione), le intere dirette tv delle olimpiadi del '68 a colori, la parata sovietica del cinquantenario della rivoluzione d'ottobre del '67, i viaggi europei di Kennedy e Nixon… Altre volte è un libero flusso di associazioni che si compongono in nottate a tema (il bacio, l'acqua, le epifanie…). Oppure si trova a sostenere gli autori più esposti (Ciprì e Maresco, Straub-Huillet, Genikian e Ricci Lucchi, Gaudino). Sono i “mille piani” di Fuori Orario che affiorano sonnambuli, mostrando le stratificazioni, le vene, gli attraversamenti tra cinema, televisione, arte, musica, filosofia.


Poche persone collegano l'attuale “Fuori Orario” al suo esordio “in diretta”. Di che si trattava?


Nell'88, dopo l'esperienza unica della Magnifica Ossessione (40 ore non stop di film, trailer, lavori girati ad hoc da registi), con il ricco magazzino accumulato abbiamo fatto uno strano programma notturno, a Milano, che si chiamava Fuori Orario. Era una diretta bazar di tre ore che andava in onda il sabato notte dalle 23.30 alle 3. Iosa Ghini, architetto bolidista, aveva progettato uno studio post-pop magnifico che aveva come ospiti fissi Davide Riondino, Tatti Sanguineti, Giulio Giorello, Elvio Facchinelli, Gianfranco Simone (che faceva la critica delle armi), Emilio Simonetti (il semisituazionista milanese che preparava ricette estreme, come quelle della cucina di corte del Re Sole con la sfoglia d'oro)... Poi, un criminologo di nera portava le notizie fresche del Corriere della Sera, Manara mandava dei disegni per fax, Harari scattava fotografie. C'era un biliardo con un esperto. Le persone parlavano a due, a tre, contemporaneamente e in diversi punti. Ogni tanto si addormentava qualcuno. Sembrava un campo di battaglia sterminato. C'era Cicciolina che posava in un set fotografico e si divertiva ad aprire e chiudere le gambe. Una sera aveva un vestito con un buco e ci fu un'inquadratura sul buco per tre secondi. Guglielmi riuscì a difendere il programma, ma perse la diretta e dopo cinque puntate abbiamo chiuso.


Come si è arrivati all'attuale “Fuori Orario”?


Tatti Sanguineti e io avevamo tirato fuori per il programma molte cose dagli archivi di Salsomaggiore, dalla Lab 80, da Livraghi, e ancora tantissimi dalla Magnifica Ossessione. A quell'accumulo si aggiungeva quello di Schegge (una specie di enciclopedia automatica del repertorio televisivo), di Vent'anni prima, la striscia di che ha dato origine a Blob, e poi i trailer, i caroselli, le notti di Publimania… Fuori Orario. Cose (mai) viste nasce da questi materiali e da queste esperienze.


Che budget ha “Fuori Orario” per l'acquisto dei film?


Abbiamo un budget di 750 mila euro che gestisce RaiCinema. Ci acquistiamo circa 80 film (sempre pochissimo). Con questi soldi riusciamo, a volte, a sostenere i registi, comprandone l'opera, anche se è vergognoso proporre 7.500 euro per un film d'autore. Cerchiamo, comunque, di non frammentare troppo e di trovare dei “pacchetti”. L'altra metà del lavoro è l'intelligence sul magazzino Rai. Ci è capitato, ad esempio, di dare per primi Cacciatore bianco di Eastwood, acquistato e mai mandato in onda. Siamo riusciti, così, ad evitare un clamoroso buco, perché dopo dieci giorni sarebbero scaduti i diritti. Storie del genere ce ne sono tante. Ormai i film esistono solo in funzione della prima serata, il resto è una serie di degradare…


Come è essere, ancora, “Fuori Orario” dentro questa Rai?


Fuori Orario sta diventando una sorta di organo istituzionale che copre un vuoto. Una specie di fogliolina che nasconde l'assoluto disinteresse della Rai per il cinema in televisione. Allora perché chiudere Fuori Orario? Costa poco, rispetto ai normali budget della Rai, anche se nella testa di un amministratore tagliare è sempre un risparmio, come togliere le mazzette dei giornali alle redazioni… Il fatto è che la Rai è un'azienda editoriale che per volontà politica, per mancanza di coraggio, non ha una linea editoriale. E invece noi siamo così smaccatamente editoriali, siamo una sorta di rivista senza fine. Una rivista in tutti i sensi, un rivedere cose (mai) viste.


Fuori Orario” è molto eterogeneo. Qual è la sua linea editoriale? Meglio, qual è la sua pedagogia?


Fuori Orario è un programma carsico. La pedagogia (termine che mi fa pensare a Rossellini, che è uno dei nostri riferimenti costanti) è quella dei fili che si intrecciano, delle parentesi che si aprono e non si chiudono. Chi vede e registra Fuori Orario compie la ricerca, il percorso da solo. E poi c'è il “ritardo”, programmatico sin dal titolo. È un programma nascosto, una cosa segreta, sempre più spinta nel cuore della notte. In quindici anni siamo passati dalle undici e mezza all'una e mezza. Per l'ora in cui va in onda sembra un programma privato, che diventa pubblico. E mi rendo conto sempre più quanto Fuori Orario sia lontano dal comunicare automatico televisivo. Il nostro “ritardo” è una resistenza fisica, più che teorica, all'illusione del contemporaneo, dell'attuale. Allora la pedagogia di fondo è proprio quella di reagire. Facciamo Fuori Orario come un telegiornale, rispondendo non a un'accensione di cronaca, ma in linea con un desiderio, nel tentativo di estrarre dal tempo le immagini e di darle in un altro tempo (e non dare loro un altro tempo). La formula che uso spesso è: rendere alla diretta il cinema e rendere al cinema la diretta televisiva.


Opponendosi alla tirannia della cronaca “Fuori Orario” è, anche, un'opera di critica che pensa in grande. Ma quando recupera il dialogo con l'oggi, lo fa a modo suo. Quale?


La domanda in qualche modo mi imbarazza. Da una parte è evidente, sin dal titolo, il nostro stare fuori dalla cronaca. Ma dall'altra noi reagiamo a delle cose di cronaca, con suggestioni tematiche, con le eveline che sono il centro teorico di Fuori Orario, di Schegge e Blob. E poi, anche, con girati nostri, come quello del G8. Abbiamo mandato in tre notti, a un anno dagli eventi, il nostro materiale e tutto quello che ci perveniva gratuitamente. Quella è stata una notte di molto cinema. Ero a Parigi, e mi ha telefonato due volte il controllo Rai chiedendomi cosa stesse succedendo, perché erano arrivate telefonate da Genova di persone che avevano visto la televisione e pensavano ci fossero gli scontri in atto in quel momento.


In “Fuori Orario” c'è un continuo travaso tra cinema e televisione. Qual è l'elemento conduttore?


Cinema e televisione diventano e sono repertori. L'ultimo film di Avati fra dieci giorni diventa interessante come repertorio. Ci mancherebbe che un cinema che non ha Hollywood e gli studios non funzioni come database. Il cinema diventa velocemente questo. Mentre la televisione lo è già. Poi le cose si incrociano. Ti accorgi che un pezzo di televisione ha un'intensità filmica, ma perché recupera quelle intenzioni, quelle luci, quei volti. Mentre nel cinema dovrebbe esserci sempre questa intenzione… dovrebbe essere sempre Kubrick, il cinema. Da Kubrick in su… perché al resto provvede la televisione.


Quale sarà il futuro di “Fuori Orario”?


È già talmente archeologico Fuori Orario che lo sconta in partenza il futuro. Siamo in una prospettiva di fine, che poi è la prospettiva del cinema quasi da subito. Lo vedo indietro il futuro, in fondo al pozzo. Perché questo è il cinema. Non credo che sia il tramonto del cinema. Credo che il cinema sia il tramonto. Che cosa è rivedere il tramonto? Quand'è che rivediamo il tramonto… lo conosci, te lo ricordi e poi te lo dimentichi. Ma è lì e sempre nuovo. Credo che il paradosso del cinema (e anche della televisione) sia questo: è una delle ultime chance che ci è data per il presente.


Intervista di Dario Zonta – L'UNITA' – 28/02/2005



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