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GIANNI PRIANO |
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LE VIOLETTE DI SAFFO |
Come in un sogno Camillo Sbarbaro è a Firenze, si avvia verso piazza San Marco per sostenere la prima prova di un esame che l'avrebbe - seguito da altri- portato su una seggiola, dietro ad una cattedra a "girare per il resto della vita " il suo" disco davanti alla scolaresca svogliata di qualche ginnasio di provincia". E' terrore quello di Sbarbaro, terrore puro. Ad un certo punto passa una fanfara militare e lui si accoda. "Scarto di cui ancora ringrazio il cielo". Questo racconto venne pubblicato per la prima volta su Il Lavoro di Genova come intervista, firmata da Cinzia Fiore, il 26 ottobre 1956 e segna l'inizio della carriera dello Sbarbaro professore, u prufessù come lo chiameranno a Spotorno, dando assai più rilievo a quel titolo improprio che non al suo essere un poeta, di quelli che finiranno sui libri di scuola.
"Girare il disco", girarlo fino alla vecchiaia: piuttosto la fanfara militare e poi via, a rincorrere contromano- a vent'anni- muretti a secco e cieli di Liguria, gite botaniche: lui che quando dovette optare tra greco e matematica (il liceo scientifico ancora non esisteva) insieme ai compagni che, come lui, scelsero la prima materia affrontò i matematici con un motto graffiante : "a noi le violette di Saffo, a voi un mazzolino di segmenti" (C. Sbarbaro, Fuochi fatui, Scheiwiller, Milano 1997). Ma le violette di Saffo girate anno dopo anno su un disco si sarebbero perdute. Ad ogni suono di campanella e voto sul registro.
Le violette di Saffo sono ai bordi dei sentierini appena dietro a Spotorno, e insieme alle violette, il fico sotto il quale sedersi per leggere Dante.
Sbarbaro non amava tenere i libri in casa, non amava avere libri ma la Divina Commedia fu il solo testo di cui non si sbarazzò, regalandolo, come invece accadeva con le altre pubblicazioni. L'inconscio di Sbarbaro è dantesco, nel senso della resistenza disperata al nulla, all'usura che lima tutto fino al vuoto. Dante dura, la sua dignità è quella di un lichene che vive una vita segreta nelle regioni polari così come nei deserti.
Attenzione, però, mai declamarlo il Dante, mai imbrodarlo di lodi e sperleccamenti ma coglierlo in fallo, far vedere (agli scolari) il verso "tirato via", la rima infilata per chiudere, la fatica ma anche l'allegria di versi che camminano da soli, sinceri, schietti, con le mani in tasca, fischiettando.
E con Dante c'è Dostevskij, il cupo, ma anche Fantomas che leggerà in guerra senza irriderlo.
I libri e la natura. Che si cominci a imparare da qui: "Non sento nessuna parentela con chi in treno, invece d'aver l'occhio al paesaggio, non conta se visto mille volte, lo tiene su un libro, sia pure la Divina Commedia" (Fuochi fatui, ibidem).
Nevrotico, compresso e zelante come molti alunni che ottengono buoni risultati Sbarbaro patì la scuola (come patì il lavoro), l'obbligo: "Ragazzo, finiti gli esami, cacciavo la testa sotto il rubinetto nella insensata speranza di cancellare sin la traccia di ciò che avevo studiato. Ma studiare, specie a quell'età, incide, si vede, il cervello di solchi come un disco" (Fuochi fatui, ibidem).
Eccolo il disco, che torna. Con i suoi solchi inesorabili e il suo andare meccanico e violento. Il disco come società o, meglio ancora, come società industriale, alienazione, smarrimento della propria essenza.
Il registro savonese del Liceo Chiabrera a.s. 1907/1908 parla chiaro: licenza liceale conseguita con otto in italiano, otto in latino, otto in greco, otto in storia e geografia, otto in filosofia, otto in fisica e chimica, otto in storia naturale. Fu così che i professori parlarono al padre di Camillo, Carlo - tre lauree- ed ingegnere specializzato in ponti e in strade, fu così che dissero: "Vostro figlio, ingegnere, deve proseguire gli studi".
E Camillo rispose che avrebbe voluto diventare Ministro della Pubblica Istruzione per abolire le scuole e liberare professori e alunni, tirarli fuori dalla inutile galera e chi vuole imparare impari da solo, secondo le sue voglie, le sue curiosità ed angosce.
Sarebbe un limite questo rifiuto di Sbarbaro per la civiltà soprattutto se trovasse nella natura una consolazione non solo ampia ma persino definitiva. Ed invece la natura non anestetizza affatto il temperamento angoloso (anche nella dolcezza) di quest'uomo in fuga, non c'è bosco o riva che lo ripari e lo ingrembi del tutto. Il bosco, la riva lo respingono, ed ecco il poeta impiegato alla Siderurgica savonese, dopo aver fatto carte false per schivare un concorso in Dogana ed essere stato respinto ad un colloquio come segretario comunale nella sbalestrante e straniante Torino.
Il grande ufficio della Siderurgica dominava il porto e per arrivarvi c'erano vicoli da attraversare, colori, odori, grappoli di persone disseminati qua e là, barche: così l'ufficio era prigione assurda, come la scuola. E come a scuola anche in ufficio Sbarbaro fu zelante dello zelo che si riserva verso le cose odiose, zelo come bile e follia. Da Savona la Siderurgica venne "deportata" a Genova ed inglobata nell'Ilva: servo della gleba industrializzata il poeta ne condivise le sorti, obbediente e disobbediente, stretto tra l'assurdità della scrivania e la libertà compulsiva dei postriboli notturni, delle osterie che frequentava con i nottivaghi genovesi un po' artisti e letterati.
Lo salvò dall'ufficio la guerra dove andò volontario come "crocerossino". "Mille volte meglio infermiere", scrisse "che scribacchino" (Cartoline in franchigia, Vallecchi, Firenze 1966). Congedato nel 1919 Sbarbaro uscì dal bagno di sangue della grande guerra con i nervi a pezzi, a pezzi come la realtà del dopo-guerra. La trincea non lo aveva cambiato, dai compagni morti aveva ereditato solo il filo stupido e sottile che ci lega a questo vivere. Nel suo preziosissimo libro "Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere. Garzanti, Milano 1981" Gina Lagorio ci racconta il poeta disteso sul letto, con le sigarette e ,a volte, con un libro, in lunghi pomeriggi che non aspettavano altro che la notte. La malattia depressiva di Camillo era la guerra passata proprio in quanto "passata": la tragica vacanza finiva e lui si ritrovava aggredito da un' esistenza che chiedeva di essere esistita, non dal bambino, non dal ragazzo ma dall'uomo. Avrebbe dovuto, "l'estroso fanciullo"(Ossi di Seppia, Gobetti, Torino 1925) come lo definì Montale che gli fu amico (alla sua maniera: tra tenerezza, commiserazione e crudele cattiveria) condannarsi al suicidio quotidiano del travet, morire un poco tutti i giorni nella città grigia, nera. Nella Genova di via Montaldo, dove passava il tram n° 21, pieno di gente da cui si sentiva drasticamente staccato. Angoscia, vuoto, far nulla fino al buio: allora usciva con gli scapestrati tra cui c'era, a volte, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi poeta apuano neoclassicheggiante e maudit, gran camminatore, finiva con Carlo, Pierangelo e tipi della mala dei caruggi a bere vino e a cercare nel rettangolo di luce che dal bordello riflette sulla strada il profilo di una amante da pagare, tra odori nauseanti di cipria e "l'arancia finta del comò"(Trucioli, Mondadori, Milano 1963).
Quando attraverso la città la notte
io vivo la mia vita più profonda.
Persiane silenziose illuminate!
Finestra buia aperta nella notte!
Negli atrii di pietra voce d'acqua!
Tra le bestie squartate lumicino
alla madonna! Ombre umani informi
dietro i vetri nebbiosi dei caffè.
Mi trasformo nel cieco del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
Voluttà d'esser solo ad ascoltarmi!
Udire nella mia notte per ore
avvicinarsi e dileguare i passi!
Essere la puttana che sussurra
la parola al passante che va oltre!
la vecchia della porta
che s'attacca pel soldo della grappa
al militare che esce nauseato!
E voluttà di scendere più in basso!
Rasentando le case cautamente
io sento dietro le pareti sorde
le generazioni respirare.
E so l'ostilità di certe vie
tozze,
la paura di certe piazze vuote…
E forse ignaro m'incammino verso
oh mia liberazione- la Fòllia.
(C. Sbarbaro, Pianissimo, Neri Pozza, Venezia 1954)
Questa è l'anticamera del prufessù un po' emulo di Baudelaire e Rimbaud, fortemente depresso e spaventato a morte dalle urgenze della praticità. Cosa e come avrebbe potuto insegnare uno così, che va in guerra per fuggire l'ufficio, che evita l'Università per accodarsi a una fanfara. Un prufessù più che dignitosamente licenziato dal liceo, colto, ma non laureato, a rischio di malattie veneree, come il suo amico Dino Campana che con quelle malattie ci si impestò il cervello. Un prufessù che vuole abolire le scuole, che non crede nell'istruzione istituzionalizzata, che cerca sui sentieri i licheni, che già anziano e prossimo alla morte, scriverà ad Elio Fiore: "Caro, mi fa piacere che ti sia tirato fuori dall'ufficio; per tirarmene fuori io gli ho preferito la guerra…La mia salute non è ottima come tu m'auguri, ma passabile. Mi spero, del resto, sulla soglia. La depressione ciclica che scadeva come una cambiale quest'anno non si è presentata. Cammino con difficoltà da due anni (artrosi totale della spina dorsale), ma esco ancora per la spesa e così aiuto un po' mia sorella che sta assai meno bene di me (miocardite e altro)…" (C. Sbarbaro, Il paradiso dei licheni. Lettere a Elio Fiore 1960-1966 a cura di Alessandro Zaccuri, Scheiwiller, Milano 1991).
Che razza di prufessù che ha "nello studiolo spotornese…una sedia impagliata, scatoloni di cartoline, un paio di pantofole…sopra un bauletto…alcuni fiaschi; lo scrittoio è ingombro di carte, alla rinfusa. Ben ordinata…la pila dei fogli che conservano i preziosi licheni essiccati…Nessun libro in vista" (Domenico Astengo, Sbarbaro francese, Il Lavoro. Supplemento di Repubblica, 22 gennaio 1993). E invece.
Invece Adelchi Baratono, ex insegnante di Camillo al "Chiabrera", filosofo e storico dell'arte, consigliere comunale socialista a Savona e poi deputato nazionale gli ordinò di preparare per l'Università un quarantenne -tale Luxardo- italiano arricchitosi in America.
A Sbarbaro toccò riprendere in mano il vocabolario del latino (odiato) e del greco (amato come si ama un mazzo di viole), studiò per suo conto qualche mese e si assunse il compito di aiutare l' alunno. Si trattò di una lotta aspra, Luxardo era tanto ignorante quanto curioso, esigente ed interessato. Alla fine la spuntarono. Così Adelchi Baratono gli mandò altri scolari, si sparse la voce della speciale didattica del prufessù; la Genova-bene paga volentieri per allenare alla ginnastica del latino e del greco i propri figliuoli svogliati e disattenti.
Sbarbaro non ama quel lavoro come non ama nessun lavoro, lo esegue però con zelo, ironia e originalità. Ha un suo metodo, ben poco ortodosso ma funzionante. Prima di tutto uno scolaro per volta, niente coppie, trii o gruppi. Poi, via le grammatiche e una convinzione: più vuoti si è, più si impara. Quindi i "casi disperati" erano quelli che curava meglio presentando le lingue antiche fuori dai dogmi delle regole, delle regole Sbarbaro sorride e insegna a sorridere: le regole si smentiscono autore dopo autore, si modificano nel tempo, si sgretolano. Dunque sul latino pieno di sonno, sul greco ronfante viene tirata una secchiata di acqua fresca. Ma non serve dire che latino e greco sono vivi, bisogna dimostrarlo: liberarli dalla gabbia delle scolasticherie, lasciarli andare vagabondi. Per poi tornare dopo un po' in un'aula immaginaria, ma per gioco. Sbarbaro fa l'asino, il testone e l'alunno cerca un modo per interessarlo alla traduzione: gli autori sono difficili, Tacito, Catullo, Orazio, Saffo, Omero, Eschilo, Pindaro ma a forza di esempi (esempi, non libri di grammatica) il muro piano piano cede, gli autori si possono smontare e rimontare, con puntiglio, con divertimento. E, certo, parimenti a Dante, Omero non è un intoccabile. Pasticcia anche lui qui e là. Di questi pasticci Camillo Sbarbaro, prufessù, e l'alunno dato per spacciato e recuperato ridono insieme. E' contento anche u megu Cesarìn Piccardu, taccagnu cumme na pigna verde (mia, u l'è stetu in miraculu, Giggia, palanche ben speise, ti gh'aveivi raxiùn ).
Scrive Gina Lagorio che la pedagogia sbarbariana si configura in un raro, aristocratico fare un passo indietro rispetto all'alunno:" C'è tutto Sbarbaro in questo pudore a non partecipare la sua privacy più gelosa, il suo amore alla poesia, il suo bisogno di libertà, il suo rispetto della parola; e c'è anche ogni maestro degno del suo antico mestiere, che apre le porte alle stanze della vita ma non le soffoca di oggetti suoi" (Gina Lagorio, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, ibidem).
Difficile, però, campare di lezioni private e così nel 1925 a Sbarbaro toccò quella cattedra per la quale si poetava appresso l'adolescenziale e giovanile disgusto. Lo scrive anche Pavese che solitamente ciò che più temi succede: magari alla soglia dei quarant'anni dove l'impossibile maturità strepita e ti canzona, fa la mossa come una donnaccia indifferente, ghigna e spalanca la bocca bianca di denti forti. Tanto vale fingerla questa maturità, magari per tranquillizzare Clelia, la sorella da cui Camillo dipende economicamente da sempre. Clelia, detta Lina, gli impieghi li ha sempre sopportati, virilmente, ha tirato la carretta nei momenti difficili, si è data da fare. Qualcosa Sbarbaro deve provare a restituire. In lui il lavoro è percepibile prima di tutto come tirannia, in lui come in ogni ligure che nasce e cresce nell'aut aut: o le fasce, gli orti e le vigne di uva bianca, arrampicate a picco dove bue ed aratro non potranno mai entrare, gli olivi, il fieno che ti costa tre ore di cammino, o di più, tra andare e tornare inerpicandoti al mattino presto o il mare, quel mare montaliano patrigno e metallico, che si frange e si scheggia contro gli scogli, nel levante, e che ti aspetta sornione, gattesco, a volte liscio e morbido a ponente, pronto però a burrascare, a rabbuiarsi. E poi, tra un aut e l'altro, diciamo sul trattino, ci sono la città e i paesi, con le botteghe, i forni e gli scagni.
Nello scagno cresce gran parte della borghesia genovese, spezzina, savonese e portomauriziese. Ma soprattutto genovese. Lo scrive splendidamente Elio Gioanola: "nei luoghi deputati del suo trionfo la borghesia subisce il suo scacco, padri che sanno tenere la penna in mano solo per fare conti hanno in sorte figli che sanno solo tenere la penna in mano. E per scrivere sogni" (Elio Gioanola, Un killer dolcissimo, Il Melangolo, Genova, 1979). Ora, Carlo Sbarbaro con penna e matita disegnava strade, ponti, acquedotti, non aveva scagno ed era uomo di larghe vedute, tuttavia Camillo respira il carattere giansenista di una città in movimento, trafficata e trafficante, approdo e partenza, dove vali se fai. E' la città da cui fugge Montale, il cui padre Domingo, lui sì, aveva lo scagno, è la capitale di una regione dove Mario Novaro non vale come poeta ma come nome legato all'olio Sasso di cui la famiglia è produttrice a livello industriale, dove Boine, critico e scrittore tra i più acuti del Novecento, inetto discendente- da parte materna- di una prestigiosa famiglia di proprietari di uliveti, massacrato dalla nevrastenia, ospite del sanatorio di Davos e di altri Ospedali europei, cliente assiduo di farmacie e sempre economicamente in bilico e dipendente dai ricavi derivati dalle recensioni e collaborazioni letterarie finì anch'egli per fare l'insegnante supplente in un Istituto Tecnico(stessa sorte tocca a Clemente Rebora) come scrive il 21 maggio 1916, circa un anno prima di morire, a Leopolda Casati: "Insegno storia ed appena quattordici ore la settimana. Però la storia non la so perché in verità io a guardar bene non so nulla di nulla in niente di niente. Allora il tempo libero lo impiego a leggere libroni che ne parlino e il tempo dell'orario a star zitto e balbuziente per congenita afasia. Gli scolari mi voglion bene perché son largo di voti…". Questo è il Boine recensore sottilissimo(tra il 1914 e il 1916) di Giuseppe Prezzolini, Amalia Guglielminetti, Pierangelo Baratono, Ada Negri, Giovanni Papini, Corrado Govoni, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Salvatore Di Giacomo, Renato Serra, Dino Campana, Pietro Jahier, Marino Moretti e molti altri. Autore de Il Peccato ma anche di scritti, sparpagliati e casualmente ritrovati, riguardanti l'essenza del calvinismo, la crisi degli oliveti in Liguria, le eresie, il Don Chisciotte, il purismo, il concetto di Codice, Bergson.
Differentemente da Boine e da Rebora, Camillo Sbarbaro affronta il "martirio" della cattedra, con il consueto zelo. All' "Istituto Calasanzio delle Scuole Pie" di Cornigliano Ligure, allora paesino di villeggiatura marina ed oggi cimitero degli elefanti di un'industria in rovina, Sbarbaro lavora sodo e si rispecchia in quei colleghi che si tengono su con parole ma a questa modestia malinconica e frustrante corrisponde un doppio che in cattedra fa la parte del leone, comunicando con amore l'amore per i testi greci. Sbarbaro è un insegnante che sa e che sa sbilanciarsi: non nasconde la sua predilizione per il greco rispetto al latino e in un Fuoco fatuo la sintetizza così: "La superiorità dei greci sui romani si palesa già nel saluto: Sta' sano dicevano questi; i greci Sta' lieto". Avrà mai Sbarbaro comunicato con tanta chiarezza il suo pensiero, sbilanciarsi sì, ma tra le righe, con un breve sospiro: la felicità contro la salute . Progetto rivoluzionario anche nella scuola di oggi che propone corsi sul tabagismo, l'alcolismo, il sesso inteso come prevenzione o astinenza. Sbarbaro scardina il luogo comune che al benessere del corpo possa corrispondere meccanicamente quello del pensiero: eppure molte volte la scuola ha posto al centro del momento educativo il connubio Educazione religiosa/ Educazione fisica ponendo l'accento sulla finalità civica di tale relazione o accostamento. Quanti dirigenti scolastici agnostici o miscredenti assecondano qualunque strategia per apparire e concorrere con altre scuole: dunque la Religione Cattolica, l'Educazione Fisica valgono quanto l' Educazione stradale, il Corso di autodifesa e tutto ciò che conferisce alla scuola un'identità protettiva, stimolante e pre-ordinata. Mente sana nel corpo sano: il teatrino latino si frantuma il sabato sera, di fronte a quelle birre demonizzate dalla pedagogista di turno, tra le labbra lo spinello su cui in Assemblea si è autorevolmente espresso il Maresciallo dei Carabinieri, la pasticca appena citata da un' insegnante astemia, vergine, zitella allergica anche agli sciacqui per il mal di gola.
Chissà se lo stare lieti, non predicato ma vissuto il più possibile insieme, potrebbe giovarci e crescerci maggiormente che non lo stare sani, quando di sano c'è veramente poco, dall'aria che si respira allo sferragliare della metropolitana, dalla fretta alla competitività.
Forse i lupanari, sofferti ma anche colti nei loro lacerti di umanità, il piacere del vino, l'andare e venire della depressione, l'allegria del mazzo di violette aiutarono Sbarbaro ad innamorare allo studio gli scolari più ribelli e refrattari. I Franti di buona famiglia, tutta dovere, sacrificio e soldi. I Padri Scolopi lo apprezzarono molto, apprezzarono la sua puntualità, la capacità di coinvolgere le classi e, da uomini di mondo fecero finta di nulla quando di sfuggita scorsero un passamano, in mensa o nelle camerate, di un Rimbaud o di un Darwin.
Ma Cornigliano era distante da via Montaldo, richiedeva un buon tratto di Aurelia in tram e così Sbarbaro passò ai Padri Gesuiti dell'"Istituto Arecco", in piazza Manin , a due passi da casa. Qui, però, u prufessù rimase poco ma abbastanza per leggere l' Antigone come fosse dinamite. L'"Arecco" non era il "Calasanzio": Sbarbaro soffriva la maggiore rigidità, le pretese dell'alta borghesia genovese, ed il suo carattere fondamentalmente schivo si accentuò anche rispetto agli scolari: solo facendo lezione dava se stesso, suonata la campana si rinchiudeva nel guscio.
Lo tolse dall'imbarazzo (ed anche dallo stipendio) la pratica avviata dai Gesuiti per iscriverlo al Fascio. Sbarbaro levò il disturbo, benchè non si interessasse per nulla di politica (la stagione della depressione aveva scavato un solco ancora più profondo tra lui e la storia) . Levò il disturbo per disamore di un lavoro che gli stringeva, sempre più, la gola e forse, allora, il rifiuto dell'adesione al Fascismo fu, in qualche misura, un alibi.
Tuttavia, fisiologicamente, Sbarbaro non avrebbe potuto diventare fascista: gli mancavano tutti i requisiti. Né socialista né liberale né comunista aiutò, in quegli anni, amici antifascisti militanti, amici ebrei.
La rinuncia al lavoro presso l' "Istituto Arecco" fu coperta da un certificato medico procuratogli dalla sorella Clelia- Lina presso un medico "di fiducia" che attestava un attacco cardiaco dovuto a disfunzioni organiche di una certa gravità.
"U prufessù u gh'a ma de co, ti u sé?" ."Pe mi a l'è na balla". "Ti dixi che gh'è quarche atra questiùn?". "Mah, a l'è na famiggia de garibaldìn". " E allùa?". "Allùa ninte ". "U l'è megiu che Garibaldi u se taggie a barba". " Eh, scì , urtimamente gh'ean de barbe in cicinìn lunghette" " Ti u sé, manimàn". "Nu se po mai dì".
Avrà mai dato, Sbarbaro, un'occhiata al testo della Riforma Gentile? Quella che subì, presto, modifiche perché i corsi di studio risultavano faticosi ed estremamente selettivi al punto che un numero spropositato di figli di gerarchi rimaneva impantanato, inadatto a proseguire, teoricamente destinato alla zappa. Nel suo impianto innegabilmente classista la Riforma costruiva una scuola con le maglie strette, dove -certo- il borghese risultava in vantaggio ma a patto che offrisse un impegno non ordinario, degno del suo destino di futuro dirigente. Negli Istituti professionali, invece, si formavano operai specializzati, capaci nel lavoro, ignari del mazzetto di segmenti e delle violette di Saffo ma in grado di formare una sorta di aristocrazia operaia, fiera delle abilità acquisite e pronta a sabotare il Regime e ad accogliere, talvolta rigidamente e schematicamente altre volte criticamente, progetti di emancipazione. E' l'hegeliana dialettica del servo-signore che si impianta, per ora sottovoce, nell'economia e che assumerà una e più forme nel periodo resistenziale ed in quello del dopoguerra.
Ma, tornando a Gentile, vi è un punto che riguarda Sbarbaro più di quanto egli stesso non possa immaginare. Il punto è quello dell'educazione come autoeducazione. Chi davvero educa si educa e lo stesso alunno non è educato se non in quanto autoeducatosi attraverso l'insegnamento del docente.
Il docente, insomma, impara. Concetto oggi banale ma quantomeno eccentrico nella scuola di allora. In un fuoco fatuo Sbarbaro si trova anche questa volta -ma non per gioco né per scelta- dalla parte del somaro: "Un mio scolaro mi insegna che tutto, le donne, passano all'uomo ma non i capelli in disordine. Capisco allora perché fui così poco rubacuori". Frammento apparentemente lieve, quasi una battuta, che -però- racchiude la tragedia di un uomo che fu alieno al lavoro così come ad un rapporto sentimentale stabile, che fuggì, platoneggiò: u prufessù non è stato capace di autoeducarsi. Gli alunni hanno realizzato la vita, lui l'ha guardata meravigliato e angosciato.
E neppure la letteratura compensò questo spatriamento, tanto più spatriamento quanto più il poeta sa quanto vale una patria, quanto conta mettere radici. Non ha ,Sbarbaro, così come Boine, la testa tra le nuvole. Sbarbaro sa ciò che conta davvero e lo dice in un altro fuoco fatuo: "E' uno qualunque; ma al suo primo passo una madre gioì, una donna gli tremò tra le braccia, un figlio lo piangerà. Nessuno può avere di più".
E' questo, proprio questo, il pane che i "carmina…non dant".
La letteratura vale meno della vita, lo sa Sbarbaro, lo sa Boine. Commenta Elio Gioanola:" Sbarbaro ha l'aria di chi scrive quasi controvoglia, spinto da urgenze non sollecitate e pressochè indipendenti da ogni precisa volontà…Scrivere, nella coscienza di questi liguri scontrosi, concreti e ironici, è una specie di vizio assurdo, un'attività che trova giustificazione solo nel farsi testimonianza immediata e antiletteraria di un'urgente condizione interiore" (E. Gioanola, Storia letteraria del novecento in Italia, SEI, Torino 1983).
U prufessù non fu mai severo; rigoroso sì ma nello stesso tempo cosciente che alla svogliatezza del ragazzo faceva specchio la sua stessa svogliatezza. All'incubo dell'efficienza obbligatoria che riduce l'individuo a marionetta v'erano solo due antidoti: la pigrizia e lo zelo. Camillo scelse a volte l'una, altre volte l'altro. Con disperazione e senza dimenticare le violette di Saffo, sfuggenti e sempre altrove.
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