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GIANNI PRIANO |
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COME UN GELATO ALLA FRAGOLA |
Nella piccola falegnameria- museo di Pinolo Scaglione, situata proprio sullo stradone che collega Canelli a Santo Stefano Belbo ci sono i resti di un tempo che Marco Drago, scrittore nato negli ultimi anni sessanta, non rimpiange.
Lui che a Canelli è cresciuto sostiene che ci sono posti, nelle Langhe, tra i più brutti del mondo. Genova invece sì, gli piace. Gli piacciono i paesi della riviera ligure , Camogli, Santa Margherita, Zoagli. Il Piemonte no, non gli piace. Fa freddo, c'è nebbia.
Marco scrive libri (L'amico del pazzo ed altri racconti, Feltrinelli, Milano 1998) e collabora con la rivista Rockerilla. Lavora alla Rai: conducendo un programma tutto suo. Ha fondato tanti anni fa, insieme ad un gruppo di amici il Maltese, trimestrale, quadrimestrale, semestrale: Maltese ha i suoi ritmi e, giustamente, va fiero della propria irregolarità. Si trova dell'ottima narrativa, a volte, sul Maltese. In quanto a narrativa, in giro, molto di meglio non c'è. Maltese nasce, anche lui , nelle Langhe. E, non a caso, in birreria. Niente Grignolino, Nebbiolo, Barolo, Barbera, Moscato ma birra. Birra e letture comuni, musica (uno dei redattori, Gianrico Bezzato, non langarolo ma monferrino di Acqui Terme, suona con gli Knout Toulouse ed è lui che quando gli bisbiglio "Pavese…" risponde: "ha sulla coscienza molti giovani").
E' giusta l'osservazione di Bezzato. A meno che non si tratti di un giudizio moralistico ma di una constatazione storica, sociologica. Sulla coscienza di Pavese pesa la responsabilità del suicidio esemplare(ed è questo che banalmente qualcuno intende, in riferimento allo scrittore, per "avere sulla coscienza") ma ancora di più pesa ciò che è stata la gioventù degli anni sessanta e settanta : in Pavese tanti giovani studenti hanno trovato benzina da mettere nel motore della protesta esistenziale, protesta che rivendica il diritto all'autenticità e che, da solitaria, diventa presto politica: leggere Pavese era un atto politico.
Ma i ragazzi del Maltese, fuori da quegli anni, di Pavese e di Fenoglio non vogliono saperne. Gli hanno riempito la testa di "compagni", di "galli canterini", di "lune", di "falò" e di "case in collina" fino dalle elementari. La ricerca su Fenoglio, la casa di Pavese, Pinolo Scaglione.
Ecco, allora, che nella piccola segheria-museo di Pinolo ci vado da solo e Pinolo mi fa vedere (a me, l'ennesimo curioso) le fotografie di se stesso che suona il clarino, le bigonce che un tempo costruiva, i suoi attrezzi ed i libri dell' amico autografati e su La luna e i falò (Einaudi, Torino 1950) la dedica: A Pinolo questo libro/ forse l'ultimo che avrò mai scritto / dove si parla di lui/ chiedendo scusa delle "invenzioni", da Cesare. Già perché, come tutti i "patiti" di Pavese sanno, Nuto che suona il clarino e conosce la vita, è Pinolo Scaglione, il Virgilio del La luna e i falò. Il maestro.
Di maestri Pavese ha un forte bisogno, la sua indole - ad un tempo narcisistica e gregaria - richiede, di continuo, la presenza di un sostenitore. Tra questi il più importante fu Augusto Monti, suo insegnante al liceo e modello di integrità morale, il cui motto era :fai il tuo dovere e crepa.
Ed il dovere di un laureato in Lettere (con una tesi coraggiosa, in pieno regime di xenofobia fascista, intitolata Interpretazione della poesia di Walt Whitman ) è il concorso.
Non c'erano fanfare quel mattino, né il timore orrendo di far girare per tutta la vita lo stesso disco: Pavese, grazie a Monti, aveva già avuto un approccio con l'insegnamento, seppure in forma di lezioni private, presso una famiglia nobile a Bibiana, in Val Pellice.
E il mestiere appariva sopportabile ,come dimostrano le lettere inviate agli amici in quel periodo. A Leone Ginzburg, il 20 agosto 1929, scrive: "…l'allievo… siccome è blasè sta seduto come un sacco di patate…e il figlio minore che parla di merda e di pitali e mangia il pesce col coltello!!!…Ho il solito allievo intelligente e svogliato. Ha l'abitudine, poverino, di leggere il greco canterellando, poi di provar la voce da contadino, poi da ubriaco, poi da eunuco, e infine, se trova kaka ride come un melone. Io lo lascio dire, poi inesorabilmente: "Beh, traduca adesso! E prima o poi, traduce quasi sempre. Che te ne pare?".
E a Carlo Pinelli, il 31 agosto: "Io intanto sono ancora qui al fresco con un allievo che mi dà del fesso grosso come una casa e io faccio l'uomo superiore". Poi, di nuovo, il 2 settembre, a Leone Ginzburg: "L'allievo blasè che ha preso confidenza dapprima mi ha sopportato per tutta l'ora, a patto che finita la medesima gli contassi una barzelletta sporca. Ma sporca proprio, ripugnante…". Infine, a Tullio Pinelli, il 5 settembre: "Io sono ancora in campagna con una famiglia distintissima a erudirle il pupo, un pupo di diciassette anni" (Cesare Pavese, Lettere, Einaudi, Torino 1966).
Disincanto (e posa), ironia morbida. Una pedagogia che procede a tentoni. Ma divertita.
Il dovere montiano, il sangue contadino, la madre cagionevole di salute, la sorella già sposata ed un padre perso da bambino, gli fanno rifiutare, tornato a Torino, l'iscrizione gratuita come studente fuoricorso alla Columbia University. Lui aveva sperato in una borsa di studio. Senza soldi ed in quella situazione famigliare Cesare non parte e vive fino in fondo la condizione dell'orfano. Lavora sulle traduzioni, e sodo, presso Bemporad e, dopo essersi iscritto al Partito, andò a fare supplenze nelle scuole di Bra, Saluzzo, Vercelli. Poi un'altra supplenza, più comoda, quella al liceo D'Azeglio di Torino.
Dice agli amici di insegnare controvoglia ma insegna, cerca contatti con le scuole, rassicura i Presidi rispetto alla propria preparazione, i burocrati rispetto alla propria fede fascista: la madre è morta e Pavese vive con la famiglia della sorella, sa che deve guadagnarsi il pane. Non si concede sconti rispetto ad un percorso di fatica. Ma si racconta di lui come di un professore divertente, sarcastico, colto e scanzonato. L'angoscia l'aveva tutta dentro, insieme alla speranza nella scrittura, sulla bocca c'era invece l'avaro sorriso di uno che sa lo sforzo, cos'è un sentiero in collina nelle ore più calde, cos'è la vendemmia e l'inverno ghiacciato. Insomma: fai il tuo dovere e crepa.
Non ci sono fanfare il mattino del 13 maggio 1935, mancano poche ore e poi Cesare sarà sul treno con il suo amico Ruata: lo aspetta una prova dell'esame abilitante, a Roma. Non fanfare, dunque ma la polizia che bussa alla porta, entra e gli perquisisce la casa: trova ovviamente molti libri: Shakespeare, Milton, Orazio, Virgilio, Molière, Kipling, grammatiche di latino e di greco, Defoe. Insieme ai libri ci sono le lettere, quelle che lo manderanno in prigione e poi al Confino. La storia di quelle lettere incendiarie è nota: la donna dalla voce rauca aveva chiesto all'impolitico Pavese di potere usare il suo indirizzo per facilitare la corrispondeza tra Altiero Spinelli (carcerato) ed il Partito Comunista clandestino.
Alle Carceri Nuove di Torino Pavese non è disperato, anzi. Scrive alla sorella con ironia ma certo di uscire presto :" Mangiare ce n'è, avendo io in tasca qualche soldo…tutto sommato sono contento di non far più lezione…Ora che ci penso, al D'Azeglio non dire che ho il tifo; và dal Preside e dì le cose come stanno. Così prenderanno un supplente. Non mettetemi niente in aria nella mia camera. Lasciate i libri e i fogli tutti al loro posto…"(C. Pavese, Lettere, ibidem). Ecco, il carcere contro il dovere o il dovere del carcere: il professore Augusto Monti ha avuto anche lui guai con il regime. Il carcere "rifugio" lo stesso che fu per Sbarbaro l'abbigliamento da crocerossino in guerra. E di mezzo c'è sempre il lavoro, il mestiere di vivere l'adultità.
Ma pochi giorni dopo, sempre alla sorella Maria, scrive: "Continua però a seccarmi per le scuole, le serali, dove gli allievi avevano bisogno di finire il programma e senza di me perderanno tempo e si faranno bocciare tutti" (C. Pavese, Lettere, ibidem). La tenaglia stringe un poco: l'impegno di portare alla fine dell'anno gli scolari delle serali e un ozio non troppo disprezzabile anche se carcerario. "Ho paura che, di questo passo , il mio preside debba rassegnarsi a fare gli esami senza di me; prova a dirglielo, perché si premunisca" scrive a Maria il 29 maggio 1935, sempre dalle Carceri Nuove (C. Pavese, Lettere, ibidem).
Quando viene trasferito alla Carceri di Regina Coeli, a Roma, nella lettera datata 8 giugno 1935 e indirizzata, naturalmente, alla sorella (una sorella - madre e nido che automaticamente riporta alla memoria suggestioni pascoliane) mostra un sostanziale ottimismo e le preoccupazioni continuano ad essere rivolte alla scuola:" …tutto si risolverà con un grande disturbo portato alle mie lezioni…qual'era il mio volere di quest'anno? Venire a Roma per il concorso. Ed ecco che ci sono venuto e non per il concorso" (C. Pavese, Lettere, ibidem). La fanfara, a dispetto di quanto abbiamo precedentemente affermato, c'era. C'era anche quel mattino ma celata, indicibile. Sbarbaro, figlio di un ingegnere ed orfano di madre, maudit ligure poco incline ai lavori regolari proclama la sua vocazione poetica, si sente poeta. Non è così difficile abbandonare un'occupazione e vivere poveramente, di luce, di mare e di cicliche sindromi depressive. L'ingegnere Carlo Sbarbaro ha testimoniato presso i figli una moralità aristocratica ed una tenerezza di fondo per le sue creature. Uomo dell'Ottocento era solito dire ai propri figli: "quando alzo la voce ho torto".
Da dove viene, invece, Pavese? La leggenda sottolinea le sue origini contadine. La cronaca ci parla di un padre, Eugenio che non aveva mai tenuto la zappa in mano ma, nativo di Santo Stefano Belbo, si era trasferito a Torino dove si impiegò, presso il Tribunale, come cancelliere. Morì di cancro al cervello quando Cesare aveva sei anni.
La madre, Consolina, austera, energica ma, nello stesso tempo, fragile di nervi educò Cesare e Maria seguendo la scorciatoia della severità, del rigore autoritario. Maria, più vecchia di sei anni rispetto a Cesare, fu una sorella affettuosa. Affetto pudico, langarolo, senza abbracci e smancerie.
Se Sbarbaro ebbe un padre materno e protettivo, Pavese ebbe una madre che tentò di sostituire un padre, imprimendo nei figli e, soprattutto, in Cesare il puntiglio, l'orgoglio, l'obbligo, e il risentimento di una donna tradita: Eugenio, infatti, parallelamente alla vita famigliare, ne visse un'altra altrettanto profonda e più gratificante. Consolina corrispondeva ad un matrimonio di convenienza, l'altra all'amore.
Si sarà sentita impotente la nevrotica Consolina di fronte all'intero universo femminile ma anche moralmente inossidabile: con i gesti e le dure parole di tutti i giorni edificò nel figlio quell' angoscia di esistere e lo spirito battagliero che saranno i tratti dominanti dello scrittore. Il resto lo completerà Augusto Monti, eroico professore anticonformista e schietto, crociano, proveniente anch'egli dalle campagne piemontesi (Monastero Bormida) allevatore di una generazione di dissidenti e di un suicida.
Elio Gioanola analizza con passione il rapporto Monti- Pavese, rapporto complesso poiché giocato su diversi registri: Monti è il professore esemplare, il professore amico, il professore- padre. Scrive Gioanola:"…lo scrittore è vissuto sempre nello sforzo vano di un'identificazione con questo ideale di padre, adottando senza mezzi termini un moralismo ascetico destinato a schiacciarlo: simbolo vivente di una cultura e di un ambiente, Augusto Monti era fatto proprio per acuire i conflitti che laceravano l'allievo, allontanando da lui ogni concreta possibilità di adattamento alla vita" (Comune di Santo Stefano Belbo. Quaderni del Centro Studi Cesare Pavese, Atti del Convegno, Il Mestiere di scrivere, Cesare Pavese trent'anni dopo, 1982).
Pavese insegnante in-segnato, a vita e a morte, da quel miscuglio di illuminismo e di idealismo tipico dell'ambiente torinese di quegli anni, una chiamata alle armi della responsabilità e della maturità che investì Norberto Bobbio, Massimo Mila, Leone Ginzburg e travolse Pavese.
Non stupisce che Monti allontanò Cesare da D'Annunzio per consegnarlo a Dante ma non al Dante sbeffeggiato e amato forsennatamente da Camillo Sbarbaro bensì al Dante civile. La giornalista e critica letteraria Bona Alterocca riferisce il saluto significativo -quanto inquietante- che Augusto Monti rivolgeva ogni anno agli alunni che terminavano il liceo: "In Dante, come in tutti i capolavori del genio umano c'è tutto: ciascuno di voi vi potrà vedere - cercare e trovare- tutto quel che vorrà; io per me al chiudere del corso segnalo a voi, e vi raccomando, soprattutto questo; questo esempio, questo insegnamento: non cominciare una cosa che non si sia in grado di finire. E in nome di Dante un augurio vi faccio: che non siate nella vita gli autori di nessuna incompiuta, che non siate dei falliti" ( Bona Alterocca , Pavese dopo un quarto di secolo, SEI, Torino 1975).
Ce n'è abbastanza per comprendere il Pavese con i piedi sulla cattedra, all'americana, di cui mi parlò un ex alunno che lo ebbe come esaminatore ad una maturità ed il Pavese in ansia per gli allievi delle scuole serali: il sadismo del pedagogo Monti incontrò il masochismo dell'immaturo Pavese: che molto riuscì a compiere e molto a non compiere.
Incompiuto è il desiderio di avere e possedere una donna.
La ballerina cantata da Francesco De Gregori in Alice si chiamava Pucci e Cesare riuscì a strapparle un appuntamento, alla fermata del tram, verso le sei di sera. Cominciò a piovere e Pavese rimase lì, a bagnarsi: missione incompiuta, caro padre-padrone-padreterno Augusto Monti. A meno che la vera missione non fosse quella di ammalarsi di pleurite e di insonnia, malattia -quest'ultima- che si trascinerà dietro per il resto dell'esistenza. Ed anche dalla pleurite non nasceranno rose e fiori. Lo salvano, questa volta, gli amici: Pinelli, Vaudagna, Ginzburg: escono nelle strade torinesi primaverili, vanno per le campagne, fanno merende e notevoli bevute di vino, parlano e scherzano di sesso, di letteratura. Il vino Pavese lo beve solo bianco, rosso gli fa impressione, "sembra sangue" dice.
Si mescolano le figure del Pavese professore (seppure non abilitato) e quelle del Pavese ragazzo, si mescolano o sono un'unità inscidibile e drammatica. Al professore non abilitato fa da tutor l'uomo non abilitato: unica salvezza, la scrittura.
Da Roma a Brancaleone Calabro: condannato a tre anni di confino. Sul suo essere- non essere professore scherza amaramente: Cesare manda una cartolina ad una amica della donna dalla voce rauca. Il testo della cartolina gioca sull'ambiguità di un pronome: "Le voglio molto bene". Le nipoti vengono a sapere della cosa e non capirono. Così lui scrisse: "E' la cosa più chiara del mondo. Basta sapere che Le è un pronome, oltrechè complimentoso di II persona anche di III. E pensare che avete uno zio professore" (C. Pavese, Lettere, ibidem). Lo zio. Sangue che corre nelle vene, eredità laterale, mistero. Loro, le ragazze, avevano lo zio Cesare, mezzo professore, mezzo galeotto. Lui aveva avuto lo zio Olimpio- fratello del padre di cui aveva scritto, qualche anno prima, nel 1932, all'amico Mario Sturani: "E' morto mio zio Olimpio. Da grand'uomo. Il comune è incazzato perché gli deve pagare l'ospedale di Torino e, dopo morto, han trovato che da tre mesi doveva avere un dolore atroce nella testa e non diceva niente, perché non fosse detta che lui aveva male. Paveis!" (C. Pavese, Lettere, ibidem).
Ancora una volta Cesare siede nel banco del ragazzo, professori sono gli altri. Ora tocca allo zio Olimpio che muore senza lamentarsi, e muore dello stesso male del padre di Cesare. Gli insegnano a morire, e lui ossessionato dall'idea di avere un destino analogo esorcizza epicizzando: ma in quel Paveis non riesce ad entrare. E così cerca, affonda le mani nelle radici, le spreme.
A Brancaleone legge, scrive: prepara Lavorare stanca. E manda al professore, quello vero, completo, compiuto una lettera datata 11 settembre 1935:"…Stare non sto benissimo e peggio starò nell'inverno…Lei sa come io odi il mare; mi piace nuotare però mi serviva meglio il Po. Ma a parte il nuotare… trovo indegno di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva…Leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa…mi piace, finalmente, che lei abbia deciso di vivere metà in campagna e metà a Torino, e non cambiar città. Così ci rivedremo al mio ritorno che, le ripeto, avverrà finiti i tre anni, a meno che qualche mattina non mi scappi la mano, annodandomi la cravatta. Nel qual caso la saluto fin d'ora".
Anche qui Cesare è il ragazzetto intelligente e sfrontato, alla cattedra. E scrive "da interrogato". Risponde sulla propria salute, ironizza sul mare, informa il professore dei suoi studi (il greco). Si mostra felice che il professore, al quale è molto affezionato, non lasci Torino. Una buona interrogazione. Ma scrivendo al professore Cesare scrive anche al padre: chiedendogli aiuto. Perché la salute peggiorerà, il mare è deprimente, leggicchia (segno che molte cose non vanno altrimenti scriverebbe: leggo), ristudia: niente di nuovo, dunque, rimastica, rimugina. Si rovina la salute con la pipa, chiede di non cambiare città, di stargli vicino e termina minacciando il suicidio.
Lo zio Olimpio è radicalmente rinnegato: è rinnegato l'adulto - ancora una volta -e proclamato il ragazzo. La permanente condizione giovanile: la medesima che Sbarbaro riuscì a reggere fino alla vecchiaia. Con alti e bassi, oscillando, soffrendo ma anche donandosi alla propria debolezza, cedendo, compiacendosi di quell' "eterno fanciullo" che Montale gli affibbiò.
Pavese no, Pavese vuole essere Paveis: nuota nel Po, non in una pozzanghera, i suoi amori sono tanti, perdenti, perduti ma dichiarati al mondo.
A Monti scriverà altre lettere, più risentite ed aggressive, alla sorella Maria e famiglia augurerà "un cancro a tutti".
Quando torna dal Confino, a Torino, non c'è la donna dalla voce rauca ad aspettarlo. Un amico gli dice che è fidanzata, meglio scordarsela. In realtà lei si è sposata il giorno prima. Comunque sia Cesare crolla a terra, sviene.
Nella falegnameria Pinolo mi diceva che a questo particolare i giornalisti e i biografi hanno dato troppo peso: Pavese era stanco per il viaggio, logorato dal confino, ammalato di asma e di insonnia. E, sì, certo: anche d'amore. Ma trovava che intorno a quello svenimento fosse stato fatto troppo baccano, senza compassione.
Scriverà sul diario a commento di questo amore più immaginato che vissuto: "Nemmeno questa volta mi indurirò, è chiaro…avevo trovato la via della salvezza…sarebbe stato un imperativo al mio fianco. Invece che cosa ha fatto! Forse lei non lo sa o se lo sa non gliene importa…ho mai fatto io nella vita qualcosa che non fosse da fesso? Da fesso nel senso più banale e irrimediabile, da uomo che non sa vivere, che non è cresciuto moralmente, che è vano, che si sorregge col puntello del suicidio, ma non lo commette"(C. Pavese, Il Mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952).
Confino significa niente più tessera del Fascio, quindi niente più scuola pubblica. Augusto Monti considerava responsabili della precoce rovina del ventottenne Pavese quelli che lo avevano fatto arrestare poche ore prima che partisse per andare a sostenere la prova scritta per il concorso. Altrimenti Cesare sarebbe diventato un ottimo insegnante: di questo (come di quasi tutto l'integro Monti era certo). Responsabilità di chi, dunque, della donna dalla voce rauca? Di Spinelli che era in carcere? Dei comunisti? Forse. Eppure il calvinista- doverista Monti non aveva sempre predicato che la responsabilità l'individuo se la gioca in prima persona? L'individuo adulto, almeno. Perché si ostinava a considerare Pavese incapace di assunzione di responsabilità? Quanto bisogno aveva il celebratissimo Monti del bambino Pavese? Del ragazzino Pavese? Dell'allievo Pavese?
Monti si nutre, come molti insegnanti hanno fatto e fanno, del sangue dei propri allievi, della loro debolezza. Monti, da pigmalione, detesta chi gli ha rovinato un progetto, quello di un allievo- insegnante, di un allievo - collega sempre e comunque a lui subordinato, devotamente.
Lo salvano i racconti, Paesi tuoi ( Einaudi, Torino 1941), è - come scrive Gioanola - una vera e propria " descensio ad inferos nel regno delle colline" (E. Gioanola, Storia letteraria del Novecento, SEI, Torino 1984). Lo salva anche il lavoro che svolge alla Casa Editrice Einaudi con puntiglio e zelo (eccessivo, maniacale). Scrive molto, scrive la sua "Divina Commedia", il suo cammino dell'anima tra città e campagna.
Lo salva, forse, l'incontro con una ragazza bella e spregiudicata, intellettuale e borghese, amica di Norberto Bobbio. La ragazza è Fernanda Pivano e Cesare la conosce già: era stata sua alunna al D'Azeglio.
La chiama gognin, bel faccino, e se ne innamora. Lei, universitaria iscritta a Lettere, avverte il fascino del professore, esce con lui in bicicletta, si fa guidare lungo il percorso dello studio. Voleva laurearsi su Shelley ma Pavese la convince a fare la tesi su Melville. Fu Pavese a proporle la traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters che la renderà famosa.
Gognin corrisponde platonicamente l'amore di quell'uomo che per ben due volte le chiede di sposarlo. Lui le cambia il soprannome, adesso la ragazza è Fern. Ora è lui, il Monti: meglio, gli piacerebbe esserlo. Una lettera del 1942 indirizzata alla ragazza si conclude così: "Traduca, traduca, traduca"( C. Pavese, Lettere, ibidem). Che è una traduzione, appunto, di fai il tuo dovere e crepa. Fern. è la donna amata, è l'allieva ed è il suo pubblico: l'introverso Pavese esige un pubblico e si racconta in quasi tutti i libri che lo riguardano della volta in cui, essendo gli amici distratti e lui non al centro dell'attenzione, si buttò a terra e finse di svenire. Rispetto a Monti, però, Pavese gioca a carte scoperte, non lo protegge la patina impermeabile dell'uomo retto, eretto e compiuto, dell'uomo che, anziano, dirà che i suoi studenti gli hanno dato la loro vita.
No, Cesare non è Monti: nessuno gli dà la propria vita.
" Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige è amato. Cioè è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria" (C. Pavese, Il mestiere di vivere, ibidem).E' la dichiarazione di un masochista, di un uomo dipendente per vocazione, e il professor Monti, le donne sono il segno doloroso di questa vocazione.
Nel 1943 Pavese è a Roma, dirigente della Casa Editrice Einaudi. Il mondo sta scoppiando e lui scrive:" …L'infanzia non conta naturalisticamente, ma come occasione al battesimo delle cose, battesimo che ci insegna a commuoverci davanti a ciò che abbiamo battezzato. A qualunque età possiamo battezzare. Ma occorre essere tanto ingenui da credere che questa trasfigurazione sia la conoscenza oggettiva. Per questo di solito l'infante ci riesce. Qui sta la spontaneità non della poesia (che è una storiella) ma dello stato pre-poetico, quello che fornisce il materiale…La spontaneità dell'ispirazione, che è tutt'altro dal poetare". Di fronte alla storia che si incendia Pavese pone lo spazio del poetico, del totalmente altro.
Il 19 luglio Roma viene bombardata: il dirigente-dipendente Pavese scrive a Giulio Einaudi una lettera precisa e tecnica in cui parla della ditta, dei collaboratori che si stanno dileguando, dei manoscritti, della necessità di trasferire a Torino la filiale (C. Pavese, Lettere, ibidem) . Saranno le Langhe (tra mito e luogo comune) ma il Pavese che si mostra in questi giorni è puro lavoro, pura logica aziendale.
Non appena torna a Torino lo scrittore si tuffa subito nel lavoro. Direttore della filiale di Roma rimane Leone Ginzburg.
Casa bombardata e inagibile, sorella sfollata a Serralunga nei pressi di Casale Monferrato, l'8 settembre piovono pietre su un Pavese smarrito. Tra la vita adulta della fuga in montagna e la vita bambina sceglie la seconda e si rifugia dalla sorella Maria la quale in seguito dirà: "Cesare l'ho sempre servito, vestito, lavato, soprattutto dopo la morte della mamma: da allora ha sempre vissuto con noi, in via Lamarmora a Torino. Mai si interessava però della famiglia, era un tipo triste, malinconico, non gioviale; io gli preparavo sempre i pasti, come quando più giovane si preparava per la maturità: studiava fino a notte, senza cenare, per non farsi cogliere dal sonno ed io lo attendevo per farlo mangiare prima che si coricasse. Ed anche dopo odiava perdere tempo per mangiare, odiava aspettare tra le portate: mangiava e leggeva, un occhio nel piatto e uno su un libro o su un giornale. Per questo non gli piaceva andare al ristorante ed anch'io dovevo servirlo in fretta e furia. Trangugiava…" Testimonianza della sorella Maria, raccolta da Marco Giorcelli ( Il Monferrato, 9 settembre 1978).
Carlo De Ambrogio. Così si fa chiamare Pavese dai Padri Somaschi del Collegio "Trevisio" di Casale. Il suo lavoro consiste prevalentemente nel dare ripetizioni.
Al Collegio lega soprattutto con Padre Baravalle, ciò che li accomuna è l'amore per la lettura, la curiosità intellettuale. Legge di "religione", in quelle settimane. Si accorge di avere la pancia per terra, nascosto, vigliacco, protetto dai preti. Chiede a Baravalle di confessarlo e si accosta all'Eucaristia. Nel Il Mestiere di vivere in data 1° febbraio 1944 scrive: "Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare".
E' l'uomo disperato, l'etnologo, lo scettico che in questo periodo fa i conti con Dio: conti che, naturalmente, non tornano. Può dirsi cristiano Pavese? Domanda assurda ma presente, in lui e nei suoi lettori. La risposta potrebbe essere "sì". Nel sentimento di pietà, nella cognizione del dolore, nella percezione dell' "intima dolcezza del regno di Dio" (C. Pavese, Il Mestiere di vivere, ibidem). Sì, ancora di più, nell' odio per il doverismo - lui ammalato proprio di questo- a cui contrappone la carità, Cristo e Dostoevskji dando, senza mezzi termini, del "lurido" a Kant, ai sui imperativi. Lurido Kant, lurido Monti e lurido Pavese Cesare.
Racconta Bona Alterocca, riferendosi ai tempi del Collegio di Casale:" … nemmeno lì riusciva a stare tranquillo. Tra i ragazzi ce n'era uno di povera famiglia, sugli undici anni, che un giorno disse di avere mal di denti e chiese di essere portato dal dentista…Appena solo il bambino corse alla caserma della milizia fascista e denunciò il rettore Luigi Frumento, il padre ministro Agostino Zambonati e padre Giovanni Baravalle. Motivo: i religiosi nascondevano alcuni ex ufficiali sfuggiti ai repubblichini, egli inoltre aveva sentito Baravalle dire: I tedeschi hanno già perso la guerra.
I Somaschi furono interrogati mentre Pavese, aiutato da padre Frumento, fuggì lasciando il Collegio fortezza dal quale si era abituato a non uscire mai. Era padre Baravalle che gli comprava il tabacco per la pipa.
Così eccolo nuovamente a Serralunga dove tra libri, pipa e penna si distraeva preparando qualche volta le ostie che poi il parroco avrebbe benedetto insieme alla sorella Maria e alla cognata di lei: lo racconterà agli amici più volte questo fatto, con ironia, sarcasmo e stupore.
Rimaneva professore anche lì in casa, i libri e la scrittura erano l'alibi a cui si aggiungeva il vizio del fumo. Tentava di farsi perdonare assistendo ogni tanto la nipote nello studio: le fece anche due temi a cui la professoressa di italiano diede tre. Un professore che prende tre di tema lo avrebbero mai abilitato?
Padre Baravalle avrebbe detto in seguito che il Pavese che aveva conosciuto non possedeva una vera preparazione filosofica, che leggeva senza ordine, che spesso si fermava alla superficie dei problemi. E se la Commissione esaminatrice di Roma avesse espresso un giudizio analogo? Ma Baravalle aggiunse che nei sedici mesi a Casale Pavese ebbe con i ragazzi un atteggiamento delicato, attento. Anche Padre Baravalle andò a lezione da lui che lo aiutò a preparare l'esame di lingua e letteratura anglosassoni. Dell'insegnante -disse Baravalle- quell' uomo a volte timido e impacciato aveva la stoffa.
Purtoppo a volte la stoffa è anche troppa e, come Monti, Pavese fece pagare ad altri il fascino delle sue interpretazioni: a Gaspare Pajetta, nel 1942, diede ripetizioni di latino e di "politica" (proprio lui, il confinato per amore di una donna) dicendogli parole che resteranno tragicamente memorabili: "Ricordati che oggi non si può essere buoni italiani, se non si ammazza un tedesco". Pajetta morirà a diciotto anni in combattimento, nel novarese, e non certo per colpa del suo professore. Ciò non toglie che Pavese, probabilmente, ebbe colpa di quella frase: si susseguono qui allievi che superano maestri, maestri che si proiettano negli allievi e li divorano cannibalisticamente. Pavese supera l'insuperabile Monti e Pajetta chiude il cerchio superando tutti con una lezione ripetuta da studente modello.
Nel 1945 Pavese si trova nuovamente al lavoro nella sede romana dell' Einaudi: iscritto al PCI non frequenta la Sezione, non ha episodi eroici da raccontare -a guerra appena conclusa- e non è una figura esemplare.
La diffidenza-differenza tra lo scrittore e Roma è cartavetro, ostilità epidermica (anche il livornese-genovese Caproni vedrà nella capitale soprattutto "enfasi e orina"). Non può empatizzare con Roma chi scrive: "Voglio bene a mia sorella perché non parla mai…"(Lettere, Einaudi Torino 1945). E, ancora: "Tacere è la nostra virtù./ Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo/ - un grand'uomo tra idioti od un povero folle-/per insegnare ai suoi tanto silenzio/…/Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,/qualche lume in distanza…/…/ed io penso alla forza/ che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,/ alle terre lontane, al silenzio che dura/ (daLavorare stanca, I mari del sud ,Solaria, Firenze 1936).
Ricordo che anni fa, in televisione, Paolo Villaggio diceva, più o meno, che non è facile vivere a Roma, per i clacson incessanti e per i semafori che non vengono rispettati da nessuno. Cesare che monta di guardia, la notte, sotto la pioggia aspettando una ballerina che certamente non verrà è il Cesare che potrebbe, con zelo, fare la guardia ad un semaforo, il Cesare del dovere che crepa. Del disagio romano.
A Roma compare, nuovamente, la donna. Si chiama Bianca Garufi (in greco Bianca è Leucò ). Comincia una relazione amorosa difficile. Tra Cesare e la donna c'è di mezzo la poesia, la poesia che rovina, che è rovina. Il 7 dicembre 1945 scrive: "T. ti aveva detto soltanto che le poesie ti bastavano e le aveva amate molto, F. senza discuterne il riflesso pratico le aveva lette con curiosità paziente, B. ti dice che non avrai altro, e criticamente le ama molto"( Il Mestiere di vivere, ibidem). Tina Pizzardo (la donna dalla voce rauca), Fernanda Pivano, Bianca Garufi.
Forse soprattutto per questo Pavese sarebbe stato, probabilmente, un buon insegnante: la cattedra gli avrebbe conferito quell'intima autorevolezza di cui tanto dubitava e forse gli avrebbe concesso non di guarire ma di attenuare il male ponendo la poesia dentro e non contro la vita, dentro come una spina nella carne, come parte di sé anziché alternativa a sé.
Nel 1946 un'altra donna. Si chiama Teresa Motta ed è, anche lei, una sua collaboratrice all' Einaudi: ciò che con la Garufi appare acceso e difficile qui è tiepido e pigro. Come con un'allieva priva di un 'adeguata fascinazione: l'assenza dell'allieva che nella quotidianità mondana si mostra ribelle ma che in classe, durante la lezione, beve dell' insegnante ogni parola, l'assenza di quella allieva significa nostalgia (malattia del ritorno) e dunque la lezione sarà come sarà; dunque si serberanno le frasi migliori, i pensieri più complessi per la volta dopo. Fino a qui si è vivi, ancora vivi: anche se si è cominciato a morire da bambini.
Pavese, però, non gioca la sua partita in una classe reale, con preside, bidelli, colleghi lasciati fuori dalla porta. La sua partita, la sua lezione, la gioca nel tu per tu e nell' io per io: non ha compagne la donna né sulla cattedra pavesiana è posato un registro, potere del docente mediocre e potenza di quello eccellente. E allora: "Le lezioni non si danno, si prendono" (Il Mestiere di vivere).
Ter. (così viene chiamata nel Mestiere di vivere ) è l'alunna dolce e allegra, aperta, cordiale, amica. Ma Cesare cerca alunne feroci - e ne trova- così come anni prima trovò un professore, a suo modo, anch'egli feroce.
Ferocemente si congeda da Fernanda Pivano :" Il cordone ombelicale è veramente tagliato…Il maestro non ha più niente da fare. Come semplice revisore attende il manoscritto col testo per dare un'ultima occhiata. Poi buona fortuna nei mari della vita (Lettere, ibidem). Si congeda anche da Ter. E, per un certo periodo, da Roma. Torna a Torino.
" Visto molte cose giungendo in Piemonte da Roma. Le piante delle campagne e la loro collocazione…sono quelle di Virgilio e di altre letture classiche della mia adolescenza. Visto che più che l'albero in Piemonte c'è il verde, il mare vegetale. Strano perché gli alberi dei classici erano certo quelli di Roma e io invece li ho visi piemontesi, e li ritrovo qui soltanto. Sarà perché leggevo in Piemonte…" (Il Mestiere di vivere, ibidem).
Di Roma Pavese odia i circoli letterari, i salotti ed in quest'odio sarà ampiamente ricambiato, specialmente da Alberto Moravia e da Pier Paolo Pasolini.. Quest' ultimo scrive: "Non ho mai nutrito alcun particolare interesse verso le Langhe in quanto tali, per la verità; e la mia avversione a Pavese, non è, per gli addetti ai lavori, un mistero" (P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979). Non era stato più tenero Moravia: "…Il Mestiere di vivere… è un libro penoso; e questa pena, a ben guardare, viene soprattutto dalla combinazione singolare di un dolore costante, con i caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere"(da L'uomo come fine."Pavese decadente", Bompiani, Milano 1971. Letterato di mestiere fu anche, e forse più di Pavese, Moravia a cui sembra mancare, però, l'evidenza di un dolore costante, sublimato, con ogni probabilità, in un voyeurismo che implicava viaggi, donne, mondo. Moravia guarda serenamente (in apparenza) un società nella quale risulta il primo a zoppicare, la guarda dal buco della serratura nel suo piegarsi vi è qualcosa di signorile, di profondamente saggio. Una saggezza glaciale totalmente estranea a Pavese, scrittore di sangue. E poi Pavese è professore, narcisista finchè vogliamo, ma con il DNA di chi ha l'obbligo di comunicare e per il quale, dunque, la frustrazione del non riuscirvi presenta rischi enormi.
E l'avversione di Pasolini può legarsi (azzardando in maniera brutale, irriverente) ad una frase de Il Mestiere di vivere in cui si ribadiva il divieto di adescare i ragazzini. E, si badi bene, Pavese è il ragazzo permanente, l'immaturo, ma cresciuto fisicamente, cambiato e invecchiato. Niente di più ripugnante per un amante di ragazzi- ragazzi. Pavese emerge come un ragazzo- omuncolo, rappresenta lo scacco del ragazzo, la sua putrefazione. E' un ragazzo con la faccia di un uomo fallito.
Tuttavia a Roma lo scrittore piemontese riconosce la forza ancestrale del mito anche se rimane una domanda a cui da sempre Pavese ha già risposto: "Perché a ogni sussulto mitico, ti ritornano in mente i tronchi e il fiume e la collina con dietro la luna e la strada e l'odore di prato e di campo, del tuo paese? (Il Mestiere di vivere, ibidem).
Pasolini soddisfa l'istinto. Pavese il dovere. E avverte come colpa delle colpe e incapacità delle incapacità non soddisfare il dovere dell'istinto. La eiaculatio praecox tinge di disperazione la sua vita. Nel gennaio del 1938 aveva scritto a Enzo Monferini: "…ho fatto un semitentativo di suicidio, col gas…Si nasce come me, come si nasce gobbi…la coltellata che sessualmente io non soddisfo una donna mi è stata tirata a ragion veduta…so che è vero. (Il fatto è questo: che io parto troppo svelto e non c'è niente da fare)…tutto il possibile l'ho già fatto…ho una sete terribile di amicizia". (Lettere, ibidem).
E allora scrivere: come un mestiere. Lavorare, stancarsi. Seminare senza essere certi se si sarà ancora vivi al momento del raccolto.
Nel gennaio 1950 andò a Roma. Tentava, negli ultimi anni, di proporre una sua sceneggiatura a Carlo Ponti, rivedendola e limandola. Gli capitava di incontrare qualche produttore, registi, attori. A Roma incontrò -trovò- anche le attrici americane Doris e Constance Dowling e di Constance, detta Connie, si innamorò.
Partì alla svelta per Santo Stefano Belbo, da Pinolo. L'uomo che sa la vita. L'amico più grande di otto anni. Quello che gli aveva raccontato le storie che erano finite dentro La luna e i falò. Il compagno intelligente ma non intellettuale. Sobrio e severo come Monti ma anche suonatore di clarino alle feste. Virgilio, sì. Ma se Nuto raccontandoti l'inferno sapeva indicarti anche le stelle, Monti ti condannava ad un purgatorio eterno, senza redenzione.
Pinolo scosse il capo: ma proprio una romana si doveva cercare? E a Pavese scappò da ridere e glielo disse che non era romana, peggio, molto peggio: era americana.
Un'attrice americana? E cosa te ne fai te di un'attrice americana con tutto lo studiare che hai fatto, te che ti piace venire a Santo Stefano, che ci hai in testa il tuo inglese, il latino. Guarda Cesare che t'inguai. E Cesare dopo avergli detto che era come Monti, che non lo volevano felice, che a loro andava bene così, solo come un cane, si mise a tacere. E a stare zitto era un campione. Stare zitto da farti venire scemo, da metterti gli scrupoli addosso. Quel Paveis! Che scriveva romanzi sui contadini che non ci capivano niente. Che gli piaceva l'odore del prato dopo piovuto, che quell'odore piace anche a un contadino ma non te lo sa dire o si vergogna. Pinolo capiva di più, era intelligente, gli interessava la politica, leggeva il giornale. E Pavese zitto, con un muso lungo e a guardarlo lo vedevi che stava male, che aveva il magone.
Così Pinolo gli disse che l'innamorato era lui, Cesare, e nessuno più di lui poteva capire se quella donna era adatta. E se si era innamorato dell'americana doveva tenersi stretto l'americana, stretto da non lasciarla andare via.
Gliele indicò ancora le stelle, e la luna. Esiodo, Virgilio: l'America. Le Langhe.
Sei come Monti, non te ne va bene una, aveva detto quel giorno Pavese all'amico Pinolo Scaglione. A Pinolo non andava bene l'americana, a Monti i libri. Su ogni libro del suo ex allievo Monti aveva sempre da esprimere giudizi di perplessità : su La bella estate (Einaudi, Torino 1949) questa volta l'accusa era di estetismo. Ecco il giacobino Monti (che aveva pagato per le idee, durante il fascismo con tre anni di carcere mentre non per le idee ma per la voce rauca di Tina Pizzardo Pavese era finito al confino) rimproverargli quell' "onanismo" che anche all'amico comunista Davide Lajolo piacque sottolineare più volte nel suo famoso - e secondo Pinolo "ingeneroso"- libro (Il "vizio assurdo". Storia di Cesare Pavese, Il Saggiatore, Milano 1960).
L'antico maestro lo toccava nella piaga viva rimproverandogli una colpevole lontananza dal prossimo senza riconoscere la sofferta solitudine che faceva dello scrittore un apparente misantropo, guardato da molti colleghi come calcolatore, egoista e meschino.
Forse calcola, meschinamente ed egoisticamente, quando si affida all'amore di Connie. Nella logica del do ut des parla alla bella attrice di possibilità di carriera, di copioni che lui avrebbe scritto per lei, del suo essere un intellettuale importante, con molti appigli. E improvvisamente si ritrova con lei a Cervinia: le straniere non capiscono a fondo la natura che si cela e si manifesta attraverso la lingua diversa di un uomo. Connie è una nuova alunna attratta dall'Italia, dal sogno del cinema ed incuriosita da quel professore coltissimo e gentile. Un'alunna straniera che non coglie il carico di sofferenza e di sconfitta che Cesare porta da decenni sulle spalle.
Dopo la notte con Doris Pavese annota: "…L'orgasmo, il batticuore, l'insonnia. C. è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore mi ha saltato tutto il giorno e non smette ancora…Se ci fosse un malinteso?…"(Il mestiere di vivere, ibidem). Il professore che conosce l' inglese parlato in America non riesce a tradurre: dolce, remissiva, staccata, ferma.
Ciò che sa fare lo fa: scrive. Sceneggiature per Connie e per la sorella di lei: Breve libertà, Amore amaro, L'autista conteso, Il serpente e la colomba, Gli innocenti, La donna del teatro. Scrive anche poesie, poesie parlano di lei, e che lei non comprende. "E' così buona, così calma, così paziente" (Il Mestiere di vivere, ibidem). "Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. E' una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei- terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto" (Il Mestiere di vivere, ibidem).
Un amico, moltissimi anni fa, mi diceva che "Pavese è un autore per liceali". Lo diceva con sufficienza, naturalmente. In parte l'affermazione è condivisibile: alcuni liceali hanno trovato e troveranno ancora in lui emozioni e malinconie affini ad una sensibilità adolescenziale. Ma credo, adesso , che Pavese sia specialmente il poeta dell'uomo che non ha chiuso i conti, che ha lasciato la chiave nella serratura. Gli allievi di oggi se sono ragazzi è solo perché mai hanno smesso di esserlo: allievi con i capelli bianchi, l'artrite, il cuore che sobbalza insieme ai nervi. Le gambe meno sicure nell'arrampicarsi sui vecchi sentieri.
Insegna ancora alle serali, Cesare Pavese, a gente "irrisolta", che vuole ascoltare la vita. Neppure con l'intenzione di capirla, si sa che nessuno - neppure Nuto - alla fine capisce davvero la vita.
Connie torna in America, scompare. Cesare scrive quella frase famosa: "Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità miseria, nulla" (Il Mestiere di vivere, ibidem) e qualche giorno dopo: "Niente. Ho un carbone in corpo, brace sotto la cenere. Oh C. perché perché " (Il Mestiere di vivere).
Mi chiedo: perché nessun professore si sia mai assunto la responsabilità di leggermi al liceo pagine come questa. Me lo chiedo davvero. Ho avuto modo di cambiare quattro insegnanti di Italiano e nessuno di loro ha mai dedicato un minuto a Il Mestiere di vivere. Al ginnasio ho avuto un professore maschio, innamorato dell'antichità. Come si può essere innamorati dei libri messi in ordine sullo scaffale. Era burbero e simpatico. Un impasto di aoristi e consecutio temporum. Un po' di Manzoni tra le costole, un po' di Dante sui denti. Poi arrivarono tre professoresse, una piuttosto terribile, ci sparava interrogazioni e faceva sempre centro. Autori greci era una cosa a sé, c'era un pezzo di carta scritta e tu che la dovevi tradurre alla cattedra. Idem per gli Autori latini. Avevano dei nomi questi che scrivevano di aretè, di civitas? Li avranno avuti di certo, avranno combattuto guerre, amato o odiato l'imperatore, saranno stati beoni, malati, violenti, donnaioli. Niente: tradurre e poi tradurre. Ricordo solo una frase della professoressa di V^ ginnasio: "esclusivamente quando facciamo educazione civica mi accorgo che Priano è in classe…oppure quando disturba la Deodato". Certo: mi interessava ciò che mi era più vicino, ciò che mi riguardava. L'elenco del telefono, gli anonimi autori greci e latini, scardinati dal loro tempo e non proposti alla mia vita erano la stessa cosa. Poi le cose non andarono molto meglio: al Liceo fu tutto un copiare, uno studiare senza profitto né voglia. Mi interessava di più la politica (evoluzione dell'educazione civica) e continuavo a disturbare la Deodato. Ma oramai ci si erano abituati.
Qualcosa che mi piacque molto venne fuori, all'ultimo anno. La professoressa era rigidamente marxista, storicista ma ebbi modo di incappare in Gobetti, in Svevo, in Kafka, in Saba e in Montale. Pavese lo nominò qualche volta. Ma tutti, tutti erano inquadrati, imprigionati nel loro periodo storico: non piantati come un albero nella terra ma sistemati come espressioni di una situazione economica e sociale.
Manzoni e Dante non riguardavano la mia vita perché, prima di tutto, non riguardavano la vita della professoressa.
Scrive Pavese: "Amore è desiderio di conoscenza"(Il Mestiere di vivere, ibidem) . Non è un'affermazione geniale eppure può essere interpretata in mille modi: intanto guardando cosa si intende per desiderio: se c'è una differenza tra desiderio e bisogno, e poi -o prima- guardare sul dizionario la definizione stupefacente di desiderio. Desiderio: cessare di contemplare le stelle. Quindi a chi desidera non mancano pane e acqua, ma le stelle. Il pane e l'acqua mancano a chi ha bisogno. Cosa manca a chi desidera? In questo caso la conoscenza. Conoscere significa impossessarsi. Infatti nella Bibbia conoscere una donna corrisponde all'atto di possederla. E poi c'è la parola amore che in latino è Amor, divinità invincibile rispetto alla quale nessuno è mai al sicuro, neppure Giove. Amor ha l'arco, la freccia e la faretra e colpisce uomini e donne. Giove si era accorto subito di quanto questa divinità fosse pericolosa perché è cieco e strappa via gli innamorati dalla comunità, dalle regole.
Allora si potrebbe dire che Il dio cieco e armato non potendo contemplare le stelle muore dalla voglia di impossessarsene. Un'interpretazione buttata lì attraverso la quale leggere Omero, Saffo, Catullo, Sant'Agostino, i trovatori, Dante, Ariosto, Vico, Manzoni, Svevo, Cardarelli, Pasolini. Per limitarci agli antichi greci e latini ed agli italiani.
Pavese negli anni precedenti il confino faceva lezione così. Augusto Monti aveva fatto lezione così. Ed anche il Nuto, a suo modo.
Ma le lezioni, più che farle (darle) si prendono. Ce lo ha già detto, Cesare. E dal suo morire prendiamo anche noi una lezione, contro tutte le regole edificanti che vorrebbero imporci i professionisti dell'ottimismo ma anche i menagrami, quelli per i quali bisogna volare rasoterra, al riparo dai proiettili vaganti. Che poi, a ben vedere, professionisti dell'ottimismo e menagrami sono gli stessi, i primi hanno un idiota sorriso in su, gli altri un ebete smorfia in giù.
Cesare muore piangendo una donna e sapendo di piangere se stesso. Lacrime asciutte. Ecco come le ultime battute del suo diario, dove vivere è un mestiere che contempla -se preso sul serio- anche il fallimento, di questo fallimento rendono conto. Il dovere-mestiere è stato fatto, Pavese non lo ha lasciato lì. La vigna è stata arata. Tutta. Non ci sarà un'altra stagione.
"E' cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all'imbrunire, stretta al cuore- fino a notte" (8 maggio).
" La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?" (18 agosto).
Mancano dei pezzi ma sono facilmente individuabili nei libri scritti su di lui, il Premio Strega vinto, i tre giorni a Varigotti, , qualcosa che gli batteva in testa, come al padre e allo zio. L'ultimissima donna a Bocca di Magra. Anzi, no. L'ultimissima fu dall' Albergo Roma e Rocca di Cavour di fronte alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova.
Cominciò a telefonare ma era agosto, gli amici quasi tutti via e Fernanda Pivano con il marito malato non poteva muoversi. Qualche tempo prima Pavese era andato in una sala da ballo, così, per vedere qualche faccia. Lì aveva conosciuto una ragazza. Così telefonò anche a lei, fu lei l' ultimissima. Come raccontano sia Bona Alterocca che Davide Lajolo la risposta fu: "no, sei musone e mi annoi" secondo quanto riferì chi era addetto al centralino. Eppure era stato Cesare, una volta, a dire ad una ragazza, non importa più quale, sei come un gelato alla fragola.
I sonniferi, quelli che prendeva da un paio d'anni. Di più, però.
E i liceali, in seguito, con un suo libro in tasca. Magari senza averlo letto. Perché, comunque, quella morte giovane, dell'uomo- adolescente polemizzava - secondo quei ragazzi- contro il vecchiume imbalsamato dei loro docenti vivi, apparentemente, ma loro sì, loro davvero mortalmente noiosi.
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