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Gitai: registi arabi, non servite l'odio |
Il regista come un archeologo... Il cinema serve la realtà, che è sempre qualcosa di complesso. Serve a comprenderla meglio, quando è buon cinema. La nostra vita è come un film girato in un sito archeologico. Ciascuno di noi ha degli strumenti per scavare : la memoria (personale, familiare, collettiva), la conoscenza della storia, le tracce del passato. Il cinema che mi piace aiuta a far emergere delle parti di realtà che di per sé non sono alla luce. Penso, ad esempio, a certi film iraniani o taiwanesi che negli ultimi anni ci hanno aiutati a capire la pluralità di voci che attraversa questi Paesi. Il cinema, insomma, può essere un modo sovversivo di ricomporre un aspetto inedito della realtà. Prima di diventare regista lei ha compiuto studi di architettura. Come mai questo passaggio? Ho studiato architettura sulle orme di mio padre, che da Berlino, nel '35, si era rifugiato in Israele. E' morto piuttosto giovane e fare architettura era quasi un modo per riannodare i fili di un dialogo con lui. Ho preso laurea, master e dottorato in architettura, completando gli studi a Berkeley, in California. Poi, quando ho finito, ho deciso di fare un altro lavoro. In Israele mi avevano offerto di partecipare ai progetti per la costruzione di nuove colonie, ma mi sono rifiutato. Credevo allora, come credo oggi, che Israele dovrebbe essere un Paese democratico, capace di convivere con gli arabi. C'é un rapporto tra architettura e cinema? A Berkeley si studiava molta teoria: scuola di Francoforte, neomarxismo, economia del Terzo Mondo. Questo mi ha aiutato nelle riflessioni che mi hanno condotto alla regia. Ho iniziato girando documentari, la prima volta nel 1973, quando svolgevo il servizio militare su un elicottero di salvataggio. Fummo colpiti da un missile e quella è stata l'eccezione che conferma la regola: non siamo morti. In seguito a quelle esperienze, ho capito che l'architettura sarebbe stato un lavoro troppo rigido per me. Volevo pormi delle domande e il cinema mi avrebbe consentito di farlo. Pensa che il cinema possa contribuire alla causa della pace? Mi viene più facile dire cosa il cinema non dovrebbe essere: non deve diffondere odio né mettere l'altro in caricatura. In questo senso chiedo anche ai registi arabi di non rendere il proprio lavoro troppo facile, cioè di non semplificare la realtà. Altrimenti diventiamo strumenti di una macchina da guerra che purtroppo in Medio Oriente sembra inarrestabile. Come valuta la politica di Sharon? In generale assistiamo a un deteriorarsi delle relazioni tra arabi e israeliani. Tutto oggi sembra basato sui rapporti di forza. Quasi si pensa che vincerà chi farà più morti nell'altra parte. Ma non voglio essere pessimista: è un lusso che non possiamo concederci. Accetta la definizione di regista impegnato? E' una questione delicata. Quando gli artisti accettano con facilità di strumentalizzare il loro lavoro, non definisce mai bene. Detto questo, riconosco che ci sono molti film che non affermano nulla, mentre a me piace affermare qualcosa. Ma senza semplificazioni né sconti per nessuno. A cosa sta lavorando? Sto girando un film che racconta la tratta delle ragazze dell'Est verso il Medio Oriente per la prostituzione. E' una tragedia di proporzioni immani che muove un incredibile giro di denaro. Israeliani e palestinesi non vanno d'accordo su niente, ma in questo caso, trattandosi di spartire una ricca torta, sembrano disposti a trovare delle intese. Come mai ha scritto un'autobiografia in versi? L'editore francese Gallimard mi aveva chiesto un'autobiografia. Sono rimasto a lungo in dubbio, poi mi sono risolto, ma in questa forma particolare. Si tratta di una meditazione poetica sul Monte Carmelo, il luogo dove sono nato. Ma non è soltanto un luogo fisico, è un luogo mentale, una sorta di microcosmo. I versi consentono un ritmo maggiore. Nella poesia ci sono i vuoti, gli spazi, immagini, anziché concetti. Un po' come nel cinema. Intervista di Roberto Carnero L'UNITA' 19/07/2004 |
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