L'origine
di News from Home/News from House è in tutto il suo
cinema con la tensione a cambiare ogni volta approccio. Non è
facile, sorride Amos Gitai, è un po' come sbattere ogni
volta se stessi contro a un muro. Scegliendo il documentario la
necessità era di fare un film politico lontano dal
genere, qualcosa capace di esprimere a che punto sono
arrivati oggi Israele e Palestina e la possibilità di una
separazione - nel rappresentarsi e nel costruire la Storia a
venire - futura. Nel frattempo Sharon è scomparso dalla
scena politica, e le elezioni palestinesi le ha vinte Hamas.
Gitai sorride e intanto ci mostra un titolo sul caso
delle vignette danesi blasfeme: Vedi, è incredibile
quanto sia stata manipolata questa storia. Le vignette
incriminate sono state pubblicate a settembre. Perché
soltanto ora scoppia lo scandalo se non in funzione degli
attacchi fatti all'Iran sul nucleare e altro? È un gioco
delle parti e ragionando sulla rappresentazione dell'altro che ho
cominciato a girare News from Home/News from House. Al
centro c'è sempre la casa a Gerusalemme, quasi un sito di
memoria in trasformazione, appartenuta a una famiglia
palestinese, i Dajani, e confiscata dagli israeliani nel 48 già
al centro di due documentari precedenti, Home e A House
in Jerusalem anche se ogni film è autonomo come
precisa Gitai che sta preparando il suo prossimo lavoro, una
fiction, da cominciare a ottobre con ispirazione - ma molto
lontana - a L'uomo senza qualità di Robert
Musil.
Cosa può significare la scomparsa di
Sharon da una parte e la vittoria di Hamas dall'altra?
Sharon
rappresenta l'incarnazione di Israele in una spinta volontarista
secondo la quale l'uomo può cambiare il proprio destino.
Per questo ha avuto un così forte potere per tanti anni.
La sua visione inoltre non è religiosa, non contempla il
fato, il destino. È qui che possiamo anche spiegare i
cambiamenti di linea politica, il fatto che fosse prima vicino
alla destra e negli ultimi tenpi si sia spostato verso il
centro-sinistra, cosa che per me è più una
conseguenza che un vero cambiamento. In passato i palestinesi e
il mondo arabo consideravano Israele una realtà virtuale
che prima poi sarebbe scomparsa. In risposta a questo Sharon ha
deciso l'occupazione, l'installazione dei coloni, in modo che
ogni arabo doveva vedersi di fronte a casa propria un israeliano
e Israele non sarebbe più stata virtuale. Quando il paese
ha ottenuto un riconoscimento tutto ciò non serviva più.
Israele esiste e non aveva senso che dei religiosi rimanessero
nelle colonie. Al tempo stesso restituire la terra ai palestinesi
serviva per mostrare al mondo, dal suo punto di vista, cosa sono
capaci di fare. È come dire, ecco ora siete liberi ma se
gridate soltanto Allah e scegliete il terrorismo di Hamas sarà
il mondo a giudicare. È una specie di una messinscena in
cui ci sono le comparse ma il cast principale deve essere ancora
deciso.
Sharon però è uscito di scena e
una diversa classe politica prenderà il suo posto.
Non
è questo il punto. Sharon e Rabin rappresentavano una
generazione molto particolare di israeliani nata prima che
Israele divenisse stato. Sapevano che non esiste più la
diaspora, hanno conosciuto il sentimento di fragilità
dell'essere una minoranza nel paese. Chi è venuto dopo non
ha memoria di cosa significa vivere senza stato, la loro
formazione si basa sulla forza economica e militare di Israele,
mentre Sharon e Rabin sono cresciuti in una situazione di
maggiore elasticità rispetto ai cambiamenti dei confini
che potevano essere piccoli, grandi, non esistere neppure ma mai
stabili. Per questo sono convinto che oggi Israele e Palestina
stanno conoscendo due sviluppi diversi.
Ti riferisci
alla vittoria di Hamas?
Anche e non penso che dipenda
interamente dalla politica di Israele. Hamas si propone come un
gruppo dirigente con un orientamento preciso, meno corrotto
dell'Olp, che investe soldi nel welfare sociale e politico e non
è ancora soffocato dalla nomenklatura. Uno dei grandi
problemi, almeno per me, è che l'ufficio politico di Hamas
è a Damasco, il che significa che le scelte vengono fatte
a distanza, un po' come quando l'Olp di Arafat era costretto a
stare a Tunisi. Non c'è nei dirigenti di Hamas
un'esperienza diretta e quotidiana dell'occupazione, il che rende
facile prendere decisioni anche molto radicali dove però
si sottovaluta l'aspetto umano del vivere in quella
realtà.
Insisti molto, anche nel film, sul
processo di separazione tra le due realtà, Palestina e
Israele. Ma ora la società palestinese non ha un'esistenza
indipendente, uno stato, il diritto a viaggiare, il passaporto,
un'economia...
Non credo che la separazione sia
possibile nell'immediato ma sono convinto che il processo sia
cominciato, e che la società israeliana cominci a
defninirsi senza i palestinesi. Ripeto forse è solo un
inizio, e neppure ne sono certo, ma se è così tutti
i limiti per i palestinesi di cui parli potranno avere una
soluzione. È interessante che in News from House/News
from Home la critica più forte ai palestinesi oggi
viene dalla famiglia palestinese della diaspora, i
Dajani, i proprietari della casa protagonista del film che vivono
a Damasco. Mentre la visione più moderata dell'Islam la dà
Claire, l'attuale abitante della casa, israeliana che ha vissuto
in Turchia, e che anche in Israele si sente una rifugiata. Penso
che designare le zone del conflitto aiuti a individuare possibili
aree di riconciliazione. È per questo che nel finale ho
messo delle immagini da Free Zone (il precedente film di
Gitai, ndr), mi sembra che i due film raccontino un
viaggio, e la possibilità di traversare i confini, come
modo per rompere l'etnocentrismo. I palestinesi che vediamo in
News from Home, contraddicono la visione schematica che si
ha dei palestinesi nella logica del noi/loro. Sono lavoratori,
intellettuali, studenti non solo terroristi o rifugiati. Il
medioriente soffre anche l'intossicazione mediatica planetaria.
L'informazione vuole spettacolarizzare il conflitto usando
tecniche che producono ancora più contraddizione.
Intervista di Cristina Piccino
IL MANIFESTO 18/02/2006
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