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MUSICA

Glenn Gould, il profeta

Vent'anni dopo cosa ci resta di quel pianista, uomo, Peter Pan, misantropo, genio, malato, maniaco, veggente, snob, egolatra, puritano, eremita, sibillino, sublime, inaffrontabile? Tutto ci resta: suoni, parole, immagini, boutades, tic. Ed è un'eredità persino troppo ingombrante. Ci resta il paradosso insormontabile di uno che voleva sparire per divenire indimenticabile: un maestro nell'arte di ottenere il contrario di ciò cui fingeva di aspirare. Ma Glenn Gould forse è soprattutto due cose: il pianista alieno e il profeta della musica mediatizzata. Le opere omnia, le ristampe, i film, le interviste, gli scritti, i libri, le società postume addette a soddisfare il feticismo delle schiere di adoratori, sono un'industria che da quarant'anni a questa parte non conosce crisi.

In quanto Re Mida di se stesso questo artista canadese, nato a Toronto nel 1932 e morto prematuramente all'età ci cinquant'anni e dieci giorni – alt! - ho aperto in questo momento l'enciclopedia e ho avuto la conferma di ciò che non sapevo, ma di cui ero sicuro, perché Gould non avrebbe potuto tollerare una trascuratezza del genere: in effetti, e non poteva essere diversamente, morì a Toronto, il 4 ottobre 1982, per la cronaca. Dicevamo: in quanto Re Mida di se stesso Gould ha lasciato dietro di sé molti denigratori più o meno dichiarati, ma molti di più che lo venerano incondizionatamente, attraverso quella sorta di psicofarmaco che è la sua musica: le sue registrazioni di Bach, Mozart, Schönberg, Haydn, ecc.

Gould desiderava essere compositore, ma non visse abbastanza per diventarlo nel senso tradizionale del termine (scrisse un quartetto d'archi, qualche rielaborazione da Wagner e poco altro). Eppure di lui si potrebbe dire che è uno dei compositori più influenti del secolo scorso.

Nelle decine e decine di cd che riempiono gli scaffali dei negozi e degli appassionati, nella monumentale Glenn Gould Edition per esempio, non è fuori luogo che il suo nome figuri in caratteri molto più grandi degli autori di turno. Cedendo un po' alla mitografia – ma non più di tanto – se vi capita di ascoltare un brano che non conoscete suonato da lui, non potrete forse individuare il pezzo, ma molto facilmente vi scapperà detto: è Glenn Gould vero?

Quella personalità interpretativa così autocentrica, che si fa beffe di ogni difficoltà, che piroetta sul precipizio immune dalla gravità, che schiva il pathos di maniera, che aborre l'enfasi, e che – semmai – dopo averci ipnotizzato con i suoi vertiginosi carillon si concede quei deliqui proverbiali (altrettanto indebiti se riferiti alla lettera della pagina): ebbene, tutto ciò, una volta levatisi il cappello di fronte all'acrobata inarrivabile, resta comunque un boccone parecchio indigesto per chi, filologi o romantici, coltiva un'idea dell'interprete come fedele esegeta del senso racchiuso nella pagina scritta. Eppure in quella scandalosa autonomia di comportamento, in quella firma “G.G.” apposta in modo così perentorio sulle sue interpretazioni, c'è molto, molto di più di un arbitrio geniale, oppure – come a volte gli capitava – di una sottile perfidia caricaturale nei confronti di un autore poco amato. La questione interpretativa, l'antifilologismo (o meglio l'a-filologismo) di Gould sono solo la superficie di un'idea che guardava al di là, e la cui chiave d'accesso sta nella decisione apparentemente paradossale di mettere fine alla propria carriera concertistica.

Era il 10 aprile quando Glenn Gould tenne il suo ultimo recital al pubblico al Walshire Ebell Theatre di Los Angeles. In questo “gran rifiuto” si è soliti leggere l'esito finale di una sorta di sindrome dell'eremita, il frutto dei molti e gravosi pedaggi che l'introverso Glenn inflisse al geniale Gould. Richiudersi per il resto della propria vita in una stanza insonorizzata in compagnia di un pianoforte e di una selva di microfoni, e da lì comunicare con il resto del mondo, è una scelta che procura qualche brivido. Ascetismo, ricerca della perfezione, bizzarria, misantropia e introversione galoppanti: è difficile per una star della musica sfuggire alla psicologia da rotocalco che ne traduce i comportamenti in modelli alla portata dell'uomo della strada. Di fatto, giusto due anni dopo quell'ultimo concerto, su “High Fidelity” Gould pubblicò un lungo articolo intitolato The Prospects of Recordings nel quale non solo forniva la giustificazione intellettuale di una decisione sconcertante, ma tracciava le linee di un pensiero che, a distanza di anni, ci appare semplicemente profetico.

In realtà, con la sua decisione di comunicare solo attraverso il disco, Gould non fece che allargare il fossato di incomprensione che lo divideva dalla mentalità musicale dominante. Alla bizzarria del suo modus interpretandi, adesso, questo canadese dal volto emaciato e dalla silhouette stranamente incurvata (la sedia su cui si accomodava per suonare era di una spanna più bassa rispetto alla norma), aggiungeva un'altra eresia, inseguendo quella perfezione tanto ambita mediante quello che sembrava il più sleale dei mezzi, il refugium peccatorum dei mediocri: la registrazione in studio, dove con un abile lavoro di taglia e cuci era possibile cancellare tutte le magagne. In studio – sembra di sentirli i commenti – sono capaci tutti: ma è lì, nell'arena, senza rete, di fronte al pubblico, che ti voglio vedere dar prova della tua bravura. Sarebbe stato semplicemente ridicolo avanzare dubbi sulla “bravura” di Gould, nel senso volgare, meccanico del termine. Eppure quel rinchiudersi nel mondo virtuale del suono riprodotto suonava come una scelta contro natura, come eleggere a proprio ideale un falso, un vitello d'oro. Di fatto, come sempre con Gould, un enigma, anche se è impossibile non cogliere in questa decisione l'eco del Puppenspiel di Heinrich Von Kleist, la marionetta la cui pura essenza inanimata le consente di toccare quella perfezione del movimento che è impossibile a qualsiasi danzatore, schiacciato dalla gravità, dal corpo, dai turbamenti dell'anima.

Una risposta ce la fornisce Evan Eisenberg che, nel suo volume L'angelo con il fonografo, ricollega Gould a una tradizione di pensiero canadese che ha in Marshall Mc Luhan il suo esponente più noto. Una tradizione puritana che guarda alla tecnologia come possibile antidoto dell'impurità corporea e che abbinata al platonismo inintenzionale di Gould diviene fonte di una ben precisa e apollinea concezione dell'arte e della performance. Disarmante la risposta ad Arthur Rubinstein che gli chiedeva come potesse privarsi dalla inebriante sensazione “di avere l'anima del pubblico fra le mani”. “Ma, vede – gli risponde Gould (cito a braccio) – a me non interessa affatto possedere la loro anima, averli in mio potere”.

Il Canada di Gould è lo stesso di McLuhan e di Murray Schafer, il teorico del soundscape, il paesaggio sonoro, e della schizofonia, ossia di quel destino che conduce il suono riprodotto a incamminarsi su una strada autonoma e altra rispetto alla sua veste originaria. Al centro della loro attenzione sono le conseguenze antropologie della tecnologia mediatica, una riflessione in cui Glenn Gould si profila come un autentico pioniere nell'elaborare un'idea del rapporto fra performance, musica riprodotta e ascoltatore che anticipa di trent'anni almeno ciò che i musicologi di oggi ci vanno insegnando, ossia che la fonografia è un'arte nuova, che sta alla musica come la fotografia sta alla pittura, e porta con sé un'inedita dimensione estetica e spirituale.

E' legittimo recalcitrare alla visione di Gould quando dipinge un XXI secolo nel quale il concerto dal vivo sparirebbe, lasciando il posto d0ascolto di una musica registrata capace di incarnare sempre meglio un'idea di perfezione assoluta, preclusa alla rozza approssimazione della musica dal vivo. Ma ciò che Gould aveva in mente – quarant'anni fa – era una nuova e superiore civiltà musicale, nella quale la musica “entrando a far parte integrante della vita quotidiana la cambierà alla radice” e in cui l'ascoltatore avrà un ruolo attivo, capace di costruirsi il proprio concerto ideale e di “creare in contemplazione la propria divinità”.

Di fatto è su queste pagine di Gould che Eisenberg ha coniato il suo concetto di fonografia come arte diversa dalla musica di cui non potremmo più fare più a meno. Ed è fa lì che partono le analisi degli studiosi odierni, da Simon Frith, a Steven Feld, che rivoluzionano la tradizionale idea dell'industrializzazione della musica come catastrofe, convertendola in un terreno di ricerca straordinariamente fecondo e illuminandone quei caratteri di umanità e spiritualità che per generazioni si è preteso fossero antitetici ad essa.

Fra l'immagine di Gould che si “rifugia” nel disco e il Gould che invece individua nello studio di registrazione il punto di partenza di una nuova epoca musicale, si consuma in realtà il passaggio chiave della civiltà musicale contemporanea.

Giordano Montecchi – L'UNITA' – 04/10/2002



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