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MUSICA

Jannacci, la mia Italia povera ma così idealista

Canzoni in milanese per raccontare l'Italia semplice e sfortunata di ieri. Ma anche quella disillusa di oggi. Enzo Jannacci pubblica "Milano 3-6-2005", giorno del suo 70° compleanno. Sedici ballate degli anni '60, da "El me indiriss" a "El purtava i scarp del tenis", "La balilla","Ma mi", "Ti te se no" che porterà in scena al Filodrammatici di Milano dal 3 novembre.

Jannacci, festeggia già i 70 anni?

L'idea è di mio figlio Paolo, ma sono contento: queste storie andranno a una generazione che non sa cosa dicevo quarant'anni fa. Le voglio divulgare, così per un attimo smetto di essere incazzato con questo governo e questa maggioranza per tornare a storie di grande umanità.


Che piacevano a Zavattini...


Sì anche se allora non mi rendevo conto di quello che facevo. Non avevo nemmeno il pianoforte, ma solo una chitarra al collo. Quei long playing su Milano ora li paghi centinaia di biglietti da mille: io sono antico e penso ancora in lire e non in euro, ch'è una bella fregatura.


Com'era lei, negli anni '60?


Più bravo, immediato e succinto. Però meno indignato. Cantavo dall'operaio al soldato. Ora invece sono un po' stanco, anche se mi è venuta una bella voce. Se rinasco, però, voglio fare la star e che vengano a riverirmi.


Intanto si è rimesso a cantare in dialetto...


Vede, il milanese non ha le tronche e sembra di scrivere in francese. Zavattini gongolava: facevo piccoli film con un'aura precisa. Canzoni come "Ohe sun chi", "Ti te se no" o "6 minuti all'alba" sono belle e strazianti ancora adesso. Però all'epoca era una fatica, molti non capivano il milanese e in italiano avevo solo "Vengo anch'io, no tu no".


Sono canzoni amare?


Hanno un incantesimo particolare, l'unica davvero amara e indignata è"Sensa de ti" dove il nobile guerriero sta in trincea e riceve posta dalla moglie: stai tranquillo, tuo fratello pensa tutto, anche a me.


Quell'Italia esiste ancora?


Certo, non ci fosse più staremmo freschi. La passione per l'idealismo non deve estinguersi mai. Dicono che sono vetero comunista, io preferisco vetero idealista, tagliato con scure e martello perché se non si ha un ideale di bontà va a finire male. Solo che la bontà non fa audience come le ragazzotte furbe dell'Isola dei Famosi.


Cosa pensa della tv?


La gente la guarda perché apparentemente è gratis e crede di programmarla come una lavatrice. È il contrario: la tv programma te.


Lei cantava un'Italia sfortunata: c'è ancora?


Sì, ma la sfortuna uno se la cerca: se stai sei mesi in Africa senza chinino, ti prendi la malaria. Se credi alla fantasia creativa di certi ministri o ai grandi comunicatori, non ti puoi lamentare.


Invece di lamentarsi, lei nel '69 lasciò l'Italia. Perché?


Rigarono i miei dischi, dissero che non si potevano proprio trasmettere e me ne sono andato in America, come mio padre e mio nonno. A esercitare in un ospedale di New York.


Era bravo?


Da matti, studiavo come un ossesso. Anche perché gli americani facevano questo ragionamento: se questo viene da Lambrate, mica sarà un pirla, no?.


Perché è tornato?


Me lo domando spesso: forse mi mancava la musica oppure mi mancava indignarmi. In compenso ora la mia indignazione è esagerata. Però là c'era una gran libertà: andavi ai party, trovavi De Niro, premi Nobel. Qui non trovi nessuno, al massimo Apicella che ti spiega la vita
.


Intervista di Renato Tortarolo – IL SECOLO XIX – 23/10/2004



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