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Javier Cercas, indagine sull'istinto della virtù

Una corrente di simpatia, alimentata da ingredenti in comune, unisce la figura dello scrittore quarantenne Javier Cercas al protagonista del suo romanzo Soldati di Salamina: si chiama come lui, condivide il suo stesso mestiere di giornalista pur essendo proiettato nei tempi lunghi della storia, ha un identico charme fatto di calore mediterraneo misto a un insolito understatement, comunica una vitalità temperata da qualche insondabile malinconia, e per il resto... non si somigliano affatto. Sconosciuto da noi finché Guanda non ha tradotto, qualche mese fa, il suo ultimo libro, Cercas era pressoché ignoto anche in Spagna, e certo né lui né il suo editore Tusquets avrebbero immaginato di trovarsi in pochi mesi travolti dalle centinaia di migliaia di copie che hanno costretto a ristampare una ventina di volte il romanzo, già tradotto in quindici lingue, trascinante per via delle sue qualità squisitamente letterarie, più ancora di quanto non lo sia per la vicenda che narra, tutta interna alla guerra civile spagnola. L'episodio intorno al quale è organizzato l'intreccio ha la durata di uno sguardo: da una parte il gerarca falangista Rafael Sanchez Mazas, inguattato nel bosco un attimo dopo la fuga dallo spiazzo destinato alla sua fucilazione; dall'altra parte il giovane miliziano che lo rincorre per inchiodarlo al suo destino. Dura poco l'inseguimento, i due sono ormai vicinissimi, solo un cespuglio separa Sanchez Mazas dalla morte. Si gira, negli occhi del miliziano vede il suo carnefice, ma quello si rifiuta al ruolo: negli occhi del falangista non vede la sua vittima, ma un altro che condivide con lui la condizione umana, forse qualcosa di più: il narratore lo lascia solo intuire. Fatto sta che si gira, fa finta di non vedere, torna dai suoi compagni negando di avere scovato il nemico che lo avevano mandato a ammazzare. Cosa è successo, quali alchimie di umori, sentimenti e ricordi hanno reso possibile quel gesto salvifico, e soprattutto chi è, come si chiama quell'angelo della salvezza disperso nei meandri della grande Storia: questi gli interrogativi che sostengono l'intreccio, i motori che spingono il narratore sulle piste di una ricerca estenuante, per rintracciare a distanza di oltre mezzo secolo l'identità dell'ex miliziano. Questa mattina alle 10, nel corso di un convegno organizzato dal Grinzane Cavour in collaborazione con la Generalitat de Catalunya, Javier Cercas illustrerà al pubblico della Fiera del libro di Torino le motivazioni storiche e le urgenze narrative che hanno nutrito il suo romanzo. Intanto, in una parentesi ritagliata prima che la folla lo inghiotta, approfittiamo del buon umore di Cercas per farci soddisfare qualche curiosità lasciata aperta dal suo libro.

Una domanda, per cominciare, sulla Storia vera. Proprio ieri è uscito in Italia, tradotto dal Corbaccio con il titolo Le tre Spagne, l' ultimo saggio di Paul Preston, il biografo di Francisco Franco. E' una indagine mirata a focalizzare una sorta di zona grigia resistente agli opposti estremismi, che per tre anni alimentarono l'odio della guerra civile. Ne facevano parte intellettuali indipendenti, alcuni repubblicani e socialisti moderati, persino monarchici e falangisti. Tra loro, José Antonio Primo De Rivera, grande amico del protagonista del suo romanzo, fondatore insieme a lui della Falange. Le indagini storiche che stanno alla base del suo libro concordano con le tesi di Preston, secondo il quale questa frangia di moderati si adoperò effettivamente per scongiurare il massacro, prima che tutte le chances si rivelassero perdute?

Sono d'accordo con Paul Preston solo in parte: certo, anche prima che scoppiasse la guerra civile in Spagna c'erano persone ragionevoli, non solo tra gli intellettuali, ma in ogni fascia sociale, che intendevano negoziare; ma José Antonio Primo De Rivera non era tra questi. Si può dire sia stato il primo vero fascista di Spagna. Con i suoi amici - tra i quali c'era Sanchez Mazas, il protagonista del mio romanzo - e insieme ai militari aveva lavorato strenuamente per il colpo di stato; altro che moderato. Più tardi, quando era ormai in prigione, si mise a caldeggiare una soluzione al conflitto che stava insanguinando la Spagna; ma per quanto interessante dal punto di vista letterario, alla Storia rimane un fascista. Tuttavia, non etichetterei le tesi di Preston come revisioniste, almeno non nel senso che si dà a questo aggettivo in Italia e in Germania. Certo, la sua idea di una terza Spagna, né rossa né nera è ambigua, non si può pretendersi fuori quando c'è da decidere se difendere la legalità democratica o stare con i fascisti. D'altra parte, credo che la storia necessiti di un continuo processo di rivisitazione, in particolare per quel che riguarda la Spagna, dove alla morte di Franco la transizione è stata fondata su un patto di silenzio: andiamo avanti, si è detto, e posso persino arrivare a credere che sia stato un male minore, può darsi fosse in qualche modo necessario, tuttavia il prezzo è stato l'oblio, e noi sappiamo che chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.

Nella scelta di far convergere l'enigma contenuto nel suo romanzo verso un climax tutto emotivo, che non dà conto delle ragioni in gioco risolvendosi in un affondo di commozione, ha giocato di più la tentazione sentimentale o un desiderio di sfidare la tenuta del romanzo?

E' una questione per me molto intrigante, anche Vargas Llosa ha notato il pericolo che ho corso scegliendo una fine sentimentale; ma io non me ne sono neppure reso conto, non mi si è presentata altra soluzione se non lasciarmi trascinare dove mi portava il romanzo. I miei libri precedenti erano molto controllati, cerebrali, dunque per me questo approdo ha rappresentato una sorta di trasgressione ai miei principi letterari. Ma non potevo fare altrimenti...

Vuol dire che, come sostengono sempre gli scrittori, i suoi personaggi le hanno preso la mano? C'è, chi - come Saramago - non vuol sentire parlare di autonomia della voce narrante, perché essa non sarebbe che un personaggio tra gli altri, subordinato alla volontà dell'autore. Lei non è d'accordo?

Non credo sia del tutto vero. Per quel che mi riguarda, i personaggi sono sì determinati dalle regole create dall'autore, ma come nel gioco c'è sempre un momento in cui vieni portato dove non avresti pensato di arrivare: è la tecnica narrativa stessa che implica un certo svincolamento dagli obblighi che, inizialmente, avevamo costruito per definire la trama.

Il suo romanzo si alimenta pricipalmente a tre fonti: l'indignazione per una riscrittura della storia secondo cui nessuno dei due fronti, nella guerra del `36, combatteva per la libertà; il mistero legato alla scintilla di uno sguardo che vanifica l'odio tra due nemici e, infine, la suspence legata all'indagine per rintracciare nel vecchio Miralles l'uomo che salvando la vita al falangista mette in moto l'intreccio. Per tre quarti del romanzo la Storia contende il campo alla finzione, poi le lascia la scena e si ritrare su uno sfondo indistinto. Quale di questi ingredienti narrativi ha costituito la sua motivazione principale nella scrittura del romanzo?

L'essenziale, per me, è tutto in quello sguardo che si scambiano, da opposti fronti, i due soldati. E' stata una ossessione: perché il miliziano non ha ucciso il falangista? Perché se n'è andato facendo finta di non averlo visto? Io credo che non ci sia una risposta esplicita, perché la letteratura non può che implicare domande aperte. Infatti, solo alla fine il narratore si accorge che la verità narrativa è superiore a quella fattuale, perché porta con sé un contenuto morale che la trascende. L'idea, naturalmente non è mia. Già Aristotele sosteneva la superiorità della poesia sulla Storia, perché questa si attiene ai fatti - o almeno così pretenderebbe, mentre in realtà quando la si racconta si procede per selezione e quel che ne risulta è dunque già fiction. Mentre la letteratura guarda non alle contingenze, ma agli universali, di cui tutti partecipiamo. Ora, tutto questo è ovvio. Diciamo piuttosto, allora, che il mio romanzo non riguarda la guerra civile spagnola, essa rimane sullo sfondo, mentre quel che a me interessa è il destino degli eroi...

Tanto per non creare equivoci, conviene ricordare come lei descrive questo alone di eroismo che circonda l'ormai anziano Miralles, quando il narratore crede di avere identificato in lui il miliziano combattente di tante battaglie, che sul finire della guerra risparmiò la vita al suo nemico. «Sentii l'odore di medicinali e anni di vita al chiuso e verdura bollita e soprattutto odore di vecchiaia, e capii che quello era l'ingiusto e misero odore degli eroi».

Sì, partendo da fatti documentati, la narrazione arriva a una verità più profonda, o almeno a quel che a me interessava davvero dimostrare: ossia che per sfuggire alla morte è necessario che qualcuno ci ricordi, come purtroppo non succede al soldato Miralles, invecchiato nello squallore mentre dovrebbe essere cicondato dalla riconoscenza di tutti.

E ora una curiosità: perché accanto al protagonista, così attraente nella sua discrezione, così dimesso nella coscienza dei propri limiti, lei ha messo una donna patentemente volgare nell'aspetto e nei modi, sebbene efferevescente nella sua vitalità?

Mi piacciono le donne volgari. E' vero, Conchi è un po' puttanesca, e allora? La sua figura è essenziale nella struttura del romanzo, perché accanto alla trama pricincipale ne corre una secondaria, che riguarda il fallimento sentimentale del protagonista: abbandonato dalla moglie, si sente orribile, indegno di qualsiasi donna, ha il morale nella merda, e sceglie questa ragazza dall'aspetto triviale solo perché, non piacendo a se stesso, pensa che nessun'altra andrebbe a letto con lui. Ma poi si accorge di quanto preziosa sia la vitalità di questa che è ormai la sua compagna: senza di lei, senza il suo entusiasmo, avrebbe abbandonato l'indagine che lo porta a trovare Miralles. La modernità ci ha fatto credere che la cultura, e il sapere in genere, siano un tramite per la felicità, ma noi sappiamo che non è vero. Conchi parla uno slang che non so quanto la traduzione italiana riesca a rendere, è una donna semplice, priva di cultura; ma è dotata di una naturale intelligenza. Proprio come Miralles: lui e lei sono, nella mia mente, due varianti di una stessa figura. Hanno entrambi l'istinto della virtù.

Intervista di Francesca Borrelli – IL MANIFESTO – 18/05/2002

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