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2003? No, siamo nel 1984 |
Londra. Area suburbana di Southall. Se ci si scomoda a venire fin qui su un sonnecchiante treno della British Rail, è per un solo motivo: impersonare fino in fondo il ruolo del turista occidentale. Alla faccia delle contraddizioni, nella più cosmopolita città del mondo, Londra appunto, perché nella metropoli uguale per tutti, bianchi, neri, gialli e tinte intermedie, ci si può anche sentire stranieri in terra straniera al 100 per cento. Southall rappresenta infatti un modello d'insediamento (recente ed esteso) che trasloca in modo univoco e irascibile la comunità Punjabi dell'India in terra inglese. Templi, consultori a piano terra dei guru che si fanno concorrenza a colpi di neon gialli, negozi di merci dedicate (ovvero: i negozi di musica vendono solo bhangra. I negozi di video, solo Bollywwod. Gli alimentari solo cibi etnici, l'abbigliamento è solo punjabi, perfino il negozio di strumenti musicali si limita a sitar e tabla). I sikh che percorrono le strade con aria austera non danno segni di disponibilità al visitatore. Le donne si sottraggono al contatto visivo, solo i ragazzi accettano di chiacchierare, ma con aria sfottente e poca voglia di raccontarsi. In pratica Southall è il risultato di un trapianto totale: un pezzo di punjab si è spostato qui, armi e bagagli, ed ha riprodotto nell'inospitale clima londinese, i suoi usi e costumi. Forte della propria capacità produttiva, non ha lasciato fessure alla penetrazione di elementi locali. Il che finisce per generare un assurdo psichico: si vive alle porte di Londra fingendo di essere ancora in India, e limitandosi ad usare i servizi locali canalizzandoli all'interno di una comunità blindata. Più che di integrazione bisogna parlare di trasloco, di uno strano fenomeno, etichettabile migrazione integralistica. Londra. Quartiere urbano orientale di Spitafields. Qui si snoda l'angusta Brick lane e attorno a questa sottile nervatura si è insediata la comunità del Bangla Desh d'Inghilterra. Non ci vuole molto a capire che l'atmosfera che si respira in questo luogo è diversa da quella di Southall. Sfruttando infatti le proprie modeste risorse una pletora di ristoranti di livello medio-basso che offrono cucina del Bangla Desh, una versione hard di quella indiana, qualche negozio di artigianato elementare e una rete di botteghe della griffe contraffatta Spitafields ha imboccato la direzione di un altro ruolo sociale: qui la comunità ha declinato la possibilità di riproduzione di un qualche quoziente delle proprie caratteristiche originali, dello stile di vita homeland, della madre patria, e si è rassegnata ad occupare uno spazio di assoluta, inerme e inoffensiva subalternità commerciale che le garantisce però i margini di una stentata sopravvivenza. Trasformandosi in mercatino permanente a disposizione del turista che vuole sottrarsi alla stucchevole logica di Portobello-Camden Lock, Spitafields offre una moderata emozione etnica a frettolosi passeggeri in cerca del souvenir che permetta loro d'incasellare tra i ricordi del viaggio a Londra anche un veloce intingolo multiculturale. E ecco questa disordinata bancarella collettiva, il non-luogo descrittivo di un Oriente non abbastanza forte da essere perentorio con la propria esposizione di estetica e prodotti, ma comunque determinato a raccogliere le briciole del mass market turistico. Al di là dell'assillante profumo di spezie rosolate, il Bangla Desh non abita qui e tanto meno si ha l'aria di essere a Londra. La sensazione predominante è quella di un campo profughi permanente che ha trovato ordine e perfino una placida chiave di quotidianità. Al punto che gli imprenditori immobiliari già studiano l'area come possibile cuore di una speculazione a target radical-artistico. Lo hanno battezzato terzo spazio. E' un'acuta definizione suggerita da Omi Bhamha, riutilizzata da numerosi studiosi delle migrazioni, a cominciare dal valoroso Iain Chambers. La formula è efficace: le comunità migranti, una volta radicate nel nuovo luogo esistenziale e culturale punjab a Londra, algerini a Parigi, marocchini o gli srilankesi a Roma non appartengono più alla sfera di provenienza, ma non si traslano (per lingua, codici, comportamenti, regole, abitudini e consumi), se non parzialmente, nella nuova sfera di appartenenza. Vanno di conseguenza ad occupare con margini di temporaneità, una terza strada alla convivenza, in cui si affollano stress e nostalgia, desideri e frustrazioni, dinamiche di cambiamento e attriti di resistenza. Segni di frenata del mondo che cambia. Di terzo spazio e affinità, parliamo con Hanif Kureishi, il romanziere e saggista di origini che ha ripetutamente analizzato il campionario di sindromi che si agitano attorno al clash culturale deflagrato Oltremanica. Lo incontriamo a Milano dove presenta il cortometraggio Quando comincia la notte, il cortometraggio che Elisabetta Sgarbi ha tratto da un suo testo con l'interpretazione di Anna Bonaiuto. Kureishi, se osserviamo Southall e Spitafields e pensiamo alle città italiane, che idea ci dobbiamo fare? Sono luoghi che hanno seguito tracce di sviluppo economico diverso. Ma sono parte attiva della realtà multiculturale della metropoli contemporanea. Non ci fossero, vorrebbe dire che il multiculturalismo ancora non è arrivato. Vado spesso a Southall: si mangia benissimo. E non è il suo isolamento a preoccuparmi. Mi spaventa molto di più verificare giorno per giorno che la profezia formulata da Orwell in 1984 si è concretizzata con pochi anni di ritardo. Oggi siamo tutti controllati, sorvegliati, osservati. L'invisibilità è una chimera, la privacy un'illusione. Mi sembra questo il dato peggiore dell'organizzazione urbana di oggi. La convince la definizione di terzo spazio formulata da Bhabha? Sì. Ma quel che conta è la posizione degli emigranti è comunque difficile. Penso a mio padre che ha vissuto tutta la sua vita in un posto che non ha mai capito e che non lo ha mai capito. Nel Buddha delle periferie parlavo di questo: di incomprensione come forma di relazione sociale. Ora comunque si può cominciare a ragionare sui figli del terzo spazio, i nuovi arrivati generati nell'ambito di questa condizione. Sono il fenomeno più interessante. Non a caso il fondamentalismo guarda a costoro come a un obiettivo primario della propria strategia. Nel film Mio figlio il fanatico lei contrappone la generazione dei primi emigranti ai loro figli. I padri hanno saputo far propri usi e costumi della terra che li ha ospitati; i giovani li rigettano come vettori di corruzione, alla ricerca della perduta identità su una strada lastricata di fondamentalismo... Sono due punti di vista contrastanti di come è possibile prendere il mondo. Si può cercare di incorporare l'estraneità, conoscendola. O si può rifiutarla, fino a diventare paranoici. E' il caso dei fondamentalisti: l'ideologia s'impossessa di tutto e si assapora il gusto della rivoluzione. Laddove rivoluzionario è chi vuole cambiare il mondo traslandolo da un paradigma all'altro... Quindi il concetto di rivoluzione non è morto con il XX secolo... E' morto a occidente ed è rinato a oriente. E quello che si continua ad agitare è il simulacro della possibilità di una società basata su principi puri. Pensa che l'arte contemporanea possa fare qualcosa per battersi contro questa minaccia? Penso per l'appunto che la cultura possa rappresentare un possibile terzo spazio tra famiglia e politica. E' il luogo dove la gente impara a conoscersi. Non a caso intellettuali e artisti multiculturali stanno diventando sempre più numerosi in uno scenario come quello inglese, dove il problema è in sviluppo da tempo. Ha cominciato Rushdie, ma ormai sono ovunque. E mi sembra che proprio questi intellettuali multiculturali si dimostrino particolarmente acuti nella decodificazione del presente. Ma come mai sono saliti alla ribalta solo nell'ultimo decennio? Direi perché la prima generazione di emigranti pensa a lavorare. La seconda si istruisce. La terza produce artisti, registi e musicisti. Che ne pensa della montante fusion culturale? A me interessa il clash, lo scontro, non la fusion e le sue astuzie. Ai miei figli cerco d'insegnare il rispetto per la diversità. Il resto è superficialità. E' come quando i giapponesi provano a imparare cosa diavolo sia il Natale: per quanto facciano non ci capiscono un granché. In Otto braccia per abbracciarti scrive che il futuro è nelle nostre mani. Che uso ne stiamo facendo, a giudicare dai recenti avvenimenti? Credo si stia concedendo spazio al razzismo perché continui la propria caccia a nuovi oggetti della sua cupidigia. Io cerco di capire cosa succede in giro. Ad esempio cosa resterà dell'Iraq dopo i bombardamenti. Ritiene la guerra necessaria e inevitabile? Credo dovremmo sapere prima di tutto cosa ne pensa il popolo iracheno e cosa pensano gli intellettuali di Baghdad. Credo che la terza guerra mondiale sia lo strumento con cui il fondamentalismo intende opporsi alla globalizzazione. E credo che Bush abbia trasformato la Terra in un posto molto più pericoloso di prima. Intervista di Stefano Pistolini L'UNITA' 21/01/2003 |
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