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L'Alassio alla Pariani |
Laura Pariani è la vincitrice dell'edizione 2002 del premio Alassio 100 libri, un autore per l'Europa, con il romanzo Quando Dio ballava il tango (Rizzoli, 302 pp., 16,50), un libro che intreccia vicende di emigrati, di figli e nipoti di emigrati, che si sviluppano nei due continenti e finiscono sempre per incrociarsi. E' un romanzo-affresco argentino con due brevi episodi cileni che attraversa tutto il Novecento: gli scioperi della Patagonia negli anni Venti, la mattanza degli Indios, la morte di Evita, il terrore durante la giunta militare, i mondiali del 1978, il tracollo economico del 2001. Un'opera, quella della Pariani non solo di documentazione e di forti sentimenti, ma di intenso spessore narrativo. Non a caso la giuria degli italianisti stranieri impermeabile alle suggestioni mediatiche e alle mode si è espressa in modo quasi plebiscitario.
Il premio Alassio, un autore per l'Europa è ormai giunto alla sua ottava edizione, e si distingue come una delle competizioni letterarie più trasparenti. Laura Pariani è stata preceduta negli anni da Romagnoli, Loy, Guccini e Macchiavelli, Biamonti, Baggiani, Ferrero, Arpaia.
Laura Pariani è una degli autori più avvincenti della scena letteraria italiana. E questo per il semplice motivo che la sua trama poetica aggiunge sempre qualcosa in più di romanzo in romanzo. Con La signora dei porci sembrava avere raggiunto una soglia difficilmente ripetibile, e invece Quando Dio ballava il tango ha subito smentito il lettore. La Pariani vi ha affinato la capacità di entrare nelle storie individuali, di farne motivo di una realtà sociale in continua trasformazione, ma anche testimonianza di frammenti espressivi della lingua. In questo caso i dialetti italiani filtrati dai lunghi anni d'emigrazione in Argentina e in Cile.
Ora la scrittrice si sta preparando a un nuovo viaggio in Argentina e, raggiunta a casa, sul lago d'Orta, ci parla del libro, di sé, del premio.
Vabbé che c'è abituata, ai premi, ma che effetto le fanno?
E' sempre emozionante, perché è una conferma del tuo lavoro. Quando un libro termina c'è un momento in cui ti sembra che avresti potuto fare meglio, oppure nascono dubbi di altro genere, soprattutto per me, che non amo scrivere sempre lo stesso libro. E quest'ultimo ha una struttura particolare: ogni capitolo potrebbe essere a sé stante, ogni capitolo potrebbe essere letto come un racconto indipendente, ma non è un libro di racconti e c'è un filo conduttore. Poi c'è la questione della lingua, mi rimproverano di non usare l'italiano standard. Io non nemmeno se esiste ancora un italiano standard. La situazione linguistica è complessa ed è giusto che gli scrittori sperimentino. Ogni libro è un po' il primo e, anche dopo averne scritti tanti, i dubbi vengono. Ho scelto di abbandonare tutto per scrivere e questo non è certo un mestiere che ti dà sicurezza, c'è tanta competitività. Il premio è come una pacca sulla spalla che ti dice: vai avanti.
Come nasce questo libro che ha molti protagonisti, prima fra tutti, forse l'Argentina?
Dal rapporto tra il mondo agricolo dove sono nata e ho vissuto a lungo e l'emigrazione in quel paese. Per esempio, la mia famiglia comincia dal bisnonno, che faceva la golondrina rondine in castigliano cioè era un emigrante stagionale. Partiva dall'Italia alla fine dell'estate, dopo i raccolti, faceva tre mesi di veliero e passava l'inverno che là è estate a lavorare nelle pampas, poi ritornava in Italia e così via. Era una vita durissima e lui l'ha fatto per tre volte. Io ho trascorso l'infanzia in un paese del basso milanese dove tutti partivano per andare in Argentina: gli amici e i parenti si sistemavano, poi chiamavano gli altri.
Ma lei aveva un conto da saldare con l'Argentina, non è così?
E' una storia lunga. Mio nonno partì nel '26, era anarchico e non trovava più lavoro. Lasciò la moglie e una bambina appena nata, che era mia madre. Pensava di tornare, credeva che il fascismo fosse cosa provvisoria. Ma il fascismo non cadde, poi venne la guerra e infine accadde una cosa che succede spesso in Sudamerica: una svalutazione di sei zeri. Così svanirono i risparmi e lui sentì che non poteva tornare da una moglie e una figlia sconosciute. Prima scriveva regolarmente, poi le lettere si diradarono, infine non scrisse più. Era logico pensare che si fosse rifatto una vita laggiù. E io ho ereditato da mia madre il rancore per l'Argentina che le aveva distrutto la famiglia.
E poi cosa è successo?
Che nel '66 mia madre decise di andare in cerca del padre. Ero la figlia maggiore e mi portò con sé. Quel viaggio mi ha cambiato la vita, non sarei così se non avessi avuto un'adolescenza argentina. Avevo sempre vissuto una piccola vita tranquilla in un piccolo paese agricolo e di colpo mi sono trovata a Buenos Aires, una metropoli, un'altra lingua il giorno successivo a un colpo di stato, tra l'altro. E poi i grandi spazi, la traversata della pampa, indimenticabile, perché avevamo scoperto che le ultime notizie del nonno arrivavano dalla Patagonia.
E l'avete trovato, alla fine?
Sì, con la sua nuova famiglia, i suoi due figli. Ho visto tutto con gli occhi di mia madre, che non riuscì a perdonarlo. Così, dopo un viaggio di ritorno traumatico, ho messo da parte l'esperienza, anche se non l'ho dimenticata. E ci sono voluti 35 anni per decidermi a tornare in Argentina, nel 2000. Ero molto incerta, ma ho capito che dovevo farci i conti, imparare ad avere un rapporto mio con il paese che mi aveva aperto la consapevolezza di nuovi mondi. Così ho cominciato a fare avanti e indietro e a raccogliere storie, ce ne sono tante. E sono tutte drammatiche.
Lei ha scritto molto dell'Argentina di oggi sul Secolo XIX. C'è ancora qualcosa da dire?
In questo momento l'argentina sta vivendo una tragedia. Negli ultimi tre anni sono andata avanti e indietro, cercando di ricostruire i miei legami familiari e raccogliendo storie di emigrati. Ce ne sono tante e sono tutte storie drammatiche, di nostalgia e di risentimento. Ma ho cercato anche di parlare dell'Argentina, che oggi è allo stremo ed è un argomento desaparecido, c'è sempre qualcosa di più importante. Quando è avvenuto il tracollo era laggiù, finivo il libro e vedevo tutto. Ne ho parlato per telefono con amici in Europa, ma il mondo pensava ad altro, al terrorismo, all'Afghanistan. E forse in questo silenzio c'è anche paura, identificazione, la domanda inespressa: se è potuto accadere in un paese tanto ricco, non potrebbe accadere da noi? Invece penso che un paese come l'Italia, per esempio, abbia dei debiti con l'Argentina, che ha dato a molti italiani una patria, la possibilità di costruirsi una nuova vita e mi sembra che questa sia l'occasione per saldarli.
In che modo?
Intanto l'Italia potrebbe parlarne di più, i giornali scriverne di più. Sono indignata, perché abbiamo un debito e lo neghiamo. Qualcuno mi risponde che stiamo ricevendo gente che viene a lavorare. Certo, ragazzi che abbandonano gli studi per fare i camerieri nelle località turistiche. Un quarantenne, per esempio, non può lasciare casa, famiglia, vita dietro le spalle. L'Argentina è un paese poco abitato, un flusso migratorio sarebbe il disastro totale. Mi spaventa già vedere che i giovani se ne vanno: un paese senza giovani non ha futuro. E poi, non si teorizza che i paesi del terzo mondo vanno aiutati sul posto? Che bisognerebbe permettere ai potenziali emigranti di rimanere a casa? Ecco l'occasione per dimostrarlo: creare posti di lavoro in Argentina per gli argentini.
Intervista di Antonella Viale IL SECOLO XIX 20/08/2002