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Caro Vitellone se ci sei batti un colpo |
Caro Leopa, E allora Leopoldo... almeno per me, lì, nella cappella, dove, in mancanza dei giusti ospiti c'era da aspettarsi una bella adunanza sostitutiva, uno straripare di intere équipes di medici, ricoverati, ingessati, infermieri, barellieri e barellati... almeno per me (che ero il solo presente dei tuoi amici) non potevi fare qualcosa, mandarmi un segnale consolatorio?... non dico battere qualche colpo da dentro il feretro, ma che so, far cadere una fogliolina dalla solitaria ghirlanda che ti copriva, un riflessetto di luce sugli ottoni delle maniglie, intorcinare la parola al prete mexicano, o fargli venire il singhiozzo ...insomma, un cenno. Con Federico era successo al suo funerale, c'era stato quasi un dialoghetto tra me e lui. E con te? Eppure in tanti anni ce ne siamo scambiate di confidenze e confessioni, e guarda caso a proposito di donne, quando la tua febbre esistenziale ti innalzava a sorvolare mari e monti per raggiungere una casa immaginaria in un paese a scelta non più immaginario, Pordenone, Capua o Santa Maria di Leuca indifferentemente, dove certo esisteva una ragazza che nel pieno della notte stava bruciando della tua stessa febbre esistenziale, e tu follemente ti arrovellavi nel desiderio impossibile di raggiungerla, vederla, toccarla. Se penso alle migliaia di donne che ora, in questo stesso momento, stanno nella stessa eccitante attesa di vita, io... Ricordo i tuoi occhi spiritati, Leopa, quando mi offrivi questi tuoi sogni, e io, che in qualche misura credevo di appartenere al tuo mondo - (erotico? lirico?) - pensavo: questo è troppo, il mio amico dev'essere un po' tocco». E quando, seminando manciate di risatine, quelle tue da vecchietto di film western, mi raccontavi dell'ultima ora disperata (le tue ore notturne erano sempre disperate, come i personaggi delle tue commedie) dopo una notte di infruttuose ricerche dell'incontro magico, e giunto a via Pinciana, deserta come un incubo, laggiù sotto gli alberi, intravvedi finalmente la figura di una femmina, bella, impettita, vestita di rosso, con la borsetta nera a tracolla, e il cuore ti batte, e ti accosti a lei, e scopri... che è una pompa di benzina! - Pompa o non pompa, ha sghignazzato Federico quando gli ho fatto la spassosa confidenza, ... vedrai che Poldaccio qualche buco l'ha trovato lo stesso. Del resto, un commediografo di sicuro successo (l'ho lette io su Dramma, nel 1946, o 47?, le parole di Bontempelli che vedeva crisi nel teatro drammaturgico italiano, con un solo spiraglio, quello della giovane promessa, anzi certezza che portava il nome di Leopoldo Trieste)... tu, commediografo di sicuro successo - e questo me lo hai confessato ridacchiando - hai snobbato quella carriera per il miraggio non del Cinema, ma delle donne che avresti incontrato facendo il Cinema. Non eri «un po' tocco», eri folle, un fantastico folle visionario poeta. Quando ti ha preso l'uzzolo di fare il regista con la tua appassionata storia Città di notte, e per le prime scene hai scelto come set via Mario dei fiori, la strada delle case chiuse (ce n'erano tre o quattro nella famigerata strada), con Federico siamo venuti a spiarti, (non si disturba un collega sul set - parole di Federico) ci siamo avvicinati quatti quatti nell'oscurità e ci siamo messi in attesa convinti che prima o poi saresti scomparso dentro uno di quei portoni (riferimento ai portoni dei casini). Che tu l'abbia fatto o no non lo abbiamo saputo; ma c'è un'altra cosa che non ci hai mai confessato. Quella notte del 54, sulla Radicofani spopolata come erano le strade di allora, a 150 chilometri da Roma, ad un'ora che neanche i lupi, Federico ed io, nel suo macchinone americano di seconda mano, girovaghi notturni come te, avvistiamo una figura esagitata che si sbraccia a chiedere aiuto davanti alle luci accese di una Topolino in panne, e scopriamo che quella figura eri tu, Leopoldo Trieste, l'elemento mancante del nostro terzetto di quegli anni. Poi, in macchina con noi, al tuo silenzio che nascondeva certo un'avventura galante (avevamo da poco finito di girare Scampolo 53 di Giorgio Bianchi, dove avevamo fatto insieme gli aiuti registi, e il set pullulava di belle ragazze), Federico, solidale e complice, esplode nel grido che era diventato (ed è rimasto per sempre) il tuo marchio indelebile: te sfiancunéo. L'urlo era il tuo, la tua sfida donchisciottesca alle onde che affrontavamo insieme nel mare di Ostia: te sfiancunéo gridavi infilandoti nell'onda (ti sfianco, ti stronco, ti rompo). Per decenni hai accettato che ti sfottessimo con questo refrain con le sue chiare allusioni d'alcova. Ma forse eravamo degli illusi: sfottere te era difficile, molto difficile, non perché tu fossi un fulmine a replicare, dal momento che il tuo candore non ti offriva la battuta pronta, ma per il semplice fatto che appena si cominciava a parlare tu ci sommergevi coi tuoi racconti, le tue narrazioni; eri un affabulatore travolgente, una cascata, un diluvio; i tuoi pensieri, e le tue parole, scoppiettavano, sfavillavano come fuochi d'artificio; nessuno aveva la capacità di fermarti, Federico stesso veniva ammutolito, tu ti accorgevi che la sua resistenza veniva meno solo quando scappava... Fellini ti amava, ammirava incondizionatamente la tua intelligenza, la tua immaginazione sfrenata, ma al dilagare della tua eloquenza...si dava alla fuga, e tu ridevi, ridevi... Fughe di breve durata perché Fellini non poteva restare a lungo privo della tua presenza: tu eri il suo riferimento spirituale, la mente orientale, tibetana, nonostante la ridondanza. Mi hai raccontato che anche trent'anni dopo cercava la tua compagnia, ti sequestrava per portarti ai fanghi di Salsomaggiore, e tu, amico indistruttibile, sapendo che soffriva a restare solo, accettavi, lasciavi la tua Roma con entusiasmo anche per una intera settimana; e poi il momento dolente: oltre al conto dell'albergo, ti capitava tra capo e collo il costo dei fanghi non richiesti. Già, perché non è che tu fossi tanto splendido, si diceva. Io non me ne sono mai accorto, ma si chiacchierava che tra te e l'altro vitellone, il tuo grande collega Alberto Sordi, ci fosse una certa affinità, una certa reticenza a sciogliere i lacci della borsa. Ora son qui con Franchino Interlenghi, l'altro tuo collega vitellone, e stiamo parlando di te. Lui mi dice che in quasi duecento film hai guadagnato un fracco di soldi e che il malloppo te lo sei sicuramente portato appresso. Lui dice che te ne stai tranquillo, forse con le quaranta donne del paradiso dei mussulmani che sei riuscito con qualche impiccio a ottenere, e non si sorprende che non ti sei fatto vivo e non mi hai lanciato alcun segnale. Nemmeno io mi sorprendo. Prevale il mio scetticismo e smetto di inseguire l'idea delle animelle post mortem con cui ho giocato durante la messa e che interessava tanto te e Federico; certo vorrei ancora chiederti, Leopa, Leopoldo, Poldino, da vitellone a vitellone, ma è davvero in estinzione definitiva la famiglia dei vitelloni felliniani, o c'è qualche speranza di tornare a spassarsela, lassù da te, come e meglio dei vecchi tempi?. Mi risuona ancora nell'orecchio il tuo te sfiancunéo, e una cosa mi viene da dirti, un po' buffa e senza significato: è questa: provaci ancora Sam! Moraldo Rossi L'UNITA' 09/08/2004 |
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