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DARIO FO |
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Intervista a Dario Fo |
Il 19
ottobre 1997 l'Accademia Svedese fece un annuncio che causo'
sensazione: il premio Nobel per la letteratura era stato assegnato a
Dario Fo, "che nella tradizione dei giullari medievali fustiga
il potere e riabilita la dignita' degli umiliati".
L'annuncio
continuava sottolineando da un lato l'estrema serieta' della satira
di Fo, Mistero Buffo in testa, e dall'altro lato i prezzi che egli
aveva dovuto pagare per esercitarla: dai tre lustri di ostracismo
televisivo nell'era democristiana, alle violazioni verbali e fisiche
di cui egli e Franca Rame sono stati spesso vittime.
Fo intitolo'
la sua lezione magistrale, tenuta in occasione del conferimento del
premio, Contra jugulatores Obloquentes, contro i giullari
diffamatori: una citazione dell'editto del 1221 di Federico II, che
permetteva di infliggere violenza ai giullari, senza incorrere in
alcuna pena o sanzione.
In quella stessa lezione Fo rivelo' un
profondo interesse per la scienza e le sue implicazioni sociali,
prendendo apertamente posizione contro la manipolazione genetica. Ed
e' proprio su temi legati alla scienza, e piu' specificatamente alla
matematica, che l'abbiamo intervistato in occasione della dodicesima
Settimana della Cultura Scientifica, appena conclusa. E un'altra se
ne annuncia a partire dal 6 maggio.
Cominciamo dal suo ultimo libro-cassetta, che e' uno studio sul Cenacolo di Leonardo. Cosa ha scoperto?
Leonardo
ha immaginato che chi guarda si trovi non sul pavimento, ma su una
piattaforma a due metri di altezza dal suolo. Le linee di fuga sono
corrette se si cammina sulla piattaforma, ma chi sta sul pavimento in
basso subisce effetti di sollevamento, di levitazione, di leggerezza,
dovuti a come il cervello interpreta le sensazioni che gli trasmette
l'affresco. Una volta scoperta la tecnica, ci si accorge poi che
l'anno usata anche altri, ad esempio i ferraresi, anche prima di lui.
Da
dove le arriva questa conoscenza della geometria, e che rapporto ha
con il suo lavoro?
Facendo
il pittore e studiando architettura, ho dovuto studiare le geometrie
analitica e proiettiva con un certo rigore. E naturalmente quando
faccio teatro mi valgo di queste conoscenze.
In
che modo, precisamente?
Nell'impianto.
Ad esempio, quando scrivo una commedia nella sua progressione dei
fatti e delle situazioni, mi ritrovo d'istinto delle intuizioni
geometriche. Poi naturalmente "faccio catalogo", le fermo.
Lei lo sa meglio di me: prima ci sono le intuizioni, poi la scienza,
Da Galileo Galilei in avanti (o indietro).
Di
che tipo di intuizioni si tratta?
Mi
accorgo che ci sono delle costanti, delle arcate di ritmo. Ecco che
incomincia un andamento. Poi questo si ripete, si raddoppia, si
svolge al rovescio... A volte e' formidabile: puo' succedere che
effetti consecutivi creino una situazione di inciampo, e ci si
accorge che quello che ha valore e' la fine. Questo fornisce un
input, un'indicazione, dalla quale tornare indietro per ricostruire
la "vera" sequenza al rovescio.
Sono
gli stesso procedimenti geometrici della musica: inversioni,
riflessioni, e cosi' via.
Questo
serve, infatti, soprattutto a costruire i ritmi di una commedia, o
anche di un monologo. Ci si accorge a volte che bisogna sacrificare
un andamento, chiudendo, restringendolo, saltando i valori. E'
veramente una questione di progressioni matematiche.
A
proposito di teatro, che affinita' ci sono con un altro teatro,
quello della memoria rinascimentale?
Cosa
intende per "memoria"? Il fatto di recepire mnemonicamente
le situazioni?
Pensavo
soprattutto a un teatro come il suo, che deve far convivere struttura
e improvvisazione.
Diciamo
che esistono due tecniche. Ci sono quelli che studiano esattamente le
parole, e poi le recitano meccanicamente, rischiando di dimenticarsi
completamente del loro significato. L'altro modo e' suggerito da una
famosa citazione di Shakespeare, che dice: "Dovete sempre
recitare come fosse la prima volta, le parole dovete ritrovarle".
Come se uno non conoscesse fino in fondo lo svolgimento di una frase,
e dovesse ricostruirla mentre la dice.
L'improvvisazione
guidata, appunto.
Sa
come si dice, in gergo? Che l'improvvisazione e' l'arte piu'
scientifica che esista. Perche' in verita' l'improvvisazione e'
soltanto meta' della storia: l'altra meta' e' che bisogna avere la
macchina dentro. Devi acquisire moduli infiniti di svolgimento, devi
impararli, come un suonatore di jazz che s di dover rientrare alla
sedicesima battuta, e ne ha sedici a disposizione per fare le
varianti. Tutte le consonanti del canto lui le ha dentro, e va
insieme al battere e al levare. E naturalmente si lega ai ritmi, ai
tempi, al contrappunto. La matematica del contrappunto e' la stessa
nella commedia, nel monologo, nella musica.
Kundera
parla, nell' Arte del Romanzo, di "rapporto di equilibri" a
proposito sia della letteratura che della matematica.
Ben
detto. Come quando Leonardo prende un triangolo, ci inserisce un
cerchio, e fa due arcate ai lati come svolgimento di tensione e di
dinamica. Cosi' si fa nella commedia: bisogna disegnarla,
fisicamente. E infatti io disegno moltissimo, quando ne penso una:
racconto spazi, andamenti, situazioni, luoghi, gesti...
Che
legami ha i suo teatro "giullaresco" con una certa
letteratura paradossale? Penso ad autori quali Rabelais, Cervantes,
Sterne, Diderot...
Beh, dice niente! Quelli sono scienziati, gente che aveva tutto chiaro nella testa. Rabelais, poi, e' la metafisica del paradosso. Il paradosso ha bisogno di un'analisi del reale, e poi di una progressione multipla, uno svolgimento a ritmi esasperati, fuori dallo spazio solito. Se immaginiamo il reale come disegnato in piano, il paradosso e' "l'alzato", di cui il normale e' soltanto una proiezione: lo volti, giri la scena, lo vedi all'incontrario, dai valore a quello che nella storia e' secondario, facendolo diventare il personaggio o la situazione principale.
Si
tira fuori la terza dimensione.
Certo.
O anche la quarta. Immaginiamo di essere di fronte a una scena
tridimensionale, a un volume: girando velocemente intorno a questo,
come su un tapis roulant, si ha una progressione in cui la logica
cambia continuamente. Vediamo le persone davanti, di dietro, salendo,
scendendo. E questo e' cio' che bisogna riuscire a fare.
I
cubisti lo facevano in pittura.
Soltanto
che loro bloccavano l'immagine sulla tela, in una forma statica.
Diciamo piuttosto i metafisici, i grandi realizzatori della nostra
pittura, quelli del periodo di De Chirico.
Lei
considera il premio Nobel che ha ricevuto come un omaggio
all'oralita'?
Io
sono un letterato che scrive. Il teatro e' fatto di oralita', suono,
musica, tempi, ritmi, azione, ma anche naturalmente di scrittura. E i
professori dell'Accademia di Stoccolma lo sapevano, nel caso mio,
perche' avevano non solo visto ma anche letto le mie
rappresentazioni. E hanno considerato il fatto che, oltre a scrivere,
io faccio la scenografia, i costumi, le pantomime, le coreografie,
collaboro a fare le musiche... Hanno premiato la totalita' delle mie
attivita'.
Non
le e' venuta la tentazione di rifiutare il premio per motivi politici
come aveva fatto Sartre?
Il
rifiuto di Sartre aveva un valore, un significato. Il mio sarebbe
stato una ripetizione astratta, e soprattutto anacronistica. Perche'
si sono spostati loro, i giudici del Nobel: sono piu' avanti del
settanta per cento dei letterati. Non per niente, dopo di me hanno
premiato Saramago e Grass: tutti democratici di sinistra.
E
anche tutti autori Einaudi, come lei, fra l'altro.
Il
grottesco e' pero' che ora l'Einaudi e' diventata di Berlusconi. A
dire la verita', io non ce la faccio piu' a scrivere per loro: ho
rifiutato gia' un paio di lavori, mi sono bloccato. Anzi, il libro su
Leonardo l'ho stampato per mio conto. Hai voglia a dire che
Berlusconi non c'e': purtroppo c'e', fino in fondo e dovunque.
Intervista di Piergiorgio Odifreddi LA REPUBBLICA 17/04/2202
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