Sono
le sei di sera e a Rimini tira un vento freddo che ha odore di
sale. Lalbergo di Luciano Ligabue è un po
appartato, nascosto tra due palazzi e in penombra. Lui scende le
scale a piccolo trotto, jeans e giaccone di pelle scura
dordinanza, gli stivali texani che «ormai in Italia
li porto solo io». Ordina una «sambuchina ghiacchio e
mosche». Poi si siede in una piccola saletta, «la
stessa dove ho fatto tutti i provini». I provini del suo
nuovo film, Da
zero a dieci (da qualche giorno nelle sale di
tutta Italia), ambientato e girato proprio qui, tra giugno e
luglio scorsi, sua opera seconda dopo Radiofreccia,
da diverse parti considerato uno dei migliori esordi
cinematografici in anni recenti.
Perché Rimini?
La scorsa estate avrei dovuto fare un weekend qui,
per ricordare i ventanni di una storica vacanza. E poi
Rimini è un contenitore di estremi e il film è
fatto di estremi. È il simbolo di quello che la gente
cerca a tutti i livelli: dalle giostre per bambini alla
perversione più forte. E poi, come dice la voce fuori
campo del film, Rimini è come un grande specchio: a
seconda di quello che chiedi, vedi quello che sei.
Rimini
e Correggio, due posti che hanno a che fare anche con Pier
Vittorio Tondelli, che a Correggio è nato e su Rimini ha
scritto uno dei suoi romanzi più famosi.
Purtoppo
non lho mai conosciuto, ma quando avevo ventanni ho
avuto la fortuna di cozzare contro un libro scritto da uno che,
in un paese ancora diviso tra Don Camillo e Peppone, era nella
fascia Don Camillo. Ma aveva scritto un libro addirittura
sequestrato. Mi avvicinai per curiosità ad Altri
libertini, per me il suo libro più bello: cerano
raccontati angoli e situazioni che vedevo e che non mi sembravano
particolarmente interessanti o degni di rilievo. Ho capito che
quello che li rendeva interessanti era che uno ci posasse lo
sguardo sopra. Sono debitore a Tondelli di questo scatto, mi ha
fatto nascere la voglia di scrivere: ho capito che anchio
potevo posare il mio sguardo e cercare di dire la mia.
Ti
sei ispirato alla sua Rimini?
È il suo romanzo
che mi piace meno. Le cose più belle le ha scritte quando
si esponeva di più, quando entrava in un discorso di
dolore privato, come in Camere separate. In comune con il
mio film cè il fatto che Rimini è raccontata
così comè, fotografata nelle sue
contraddizioni.
Nel film cè un dolore
legato alla strage del 2 agosto 80.
Quella
mattina sono andato anchio a Rimini, ma per fortuna ho
deciso di prendere la macchina invece del treno. Ho cercato di
riflettere sugli effetti meno visibili della strage: il fatto che
venga cambiata la vita almeno a 85 famiglie. E agli amici: i
quattro protagonisti avevano 15 anni il giorno della bomba e sono
stati costretti a crescere da un giorno allaltro. Sono
persone decise, disincantate, che non vogliono mollare. Ma hanno
voglia di chiudere quel weekend di ventanni prima,
interrotto dalla strage. Vedere se è possibile recuperare
parte della loro adolescenza che gli è stata tolta. Per
questo hanno degli atteggiamenti un po infantili, come
correre nudi in mezzo alla gente.
Cosa facevi nel
1980?
Cercavo di tenere botta, è stato il
peggior anno della mia vita: facevo lartigliere di montagna
a Belluno. Avevo appena preso un diploma da ragioniere, non avevo
la sensazione che quella fosse la mia vita, ma dovevo portare a
casa uno stipendio. Il 2 agosto 1980 era una delle mie pochissime
licenze e ho raggiunto degli amici a Rimini.
Cosa vedi
di diverso rispetto ad allora?
Negli anni '70 cera
la speranza di un cambiamento a portata di mano. Credevamo che,
come dice uno dei personaggi, Libero, ognuno di noi potesse
essere felice solo se lo erano anche gli altri. Può
suonare retorico e utopico, ma non sembrava così
impossibile: cera passione, voglia di credere in una
giustizia un po diversa. Che anche per i più deboli
ci fosse la possibilità di saltarne fuori. Non tocca a me
dire che quella spinta è diversa dal mondo che vediamo
oggi.
Che differenza vedi tra voi e i ragazzi di
ventanni che vengono a Rimini oggi?
Come faccio
a conoscerli? Quando li incontro parlano con un personaggio
pubblico, con lidea che hanno di me. Più vado avanti
più mi spaventa lidea di generazione, di giovani. La
differenza tra chi ha la stessa età ma vive in contesti
sociali diversi è fortissima: non li rende uguali il fatto
di essere nati nello stesso anno. Anche la parola «generazionale»
mi sembra una montatura per farci consumare di più. Spesso
si legge che una generazione legge e beve questo, guarda certi
film, ascolta certa musica. Sono categorie preoccupanti, che
servono a omologarci.
Che effetto ti hanno le parole
di Moretti?
Non credo che il fatto di essere cantante
o regista ti metta nelle condizioni di avere unopinione
definita su tutto. Parlo per me, naturalmente: non mi sento un
tuttologo. Quello di Moretti mi è sembrato uno sfogo molto
umano, istintivo, fatto da una persona che non ne poteva più.
Fatto di cuore e non di testa. Voleva far sentire il suo disagio
per non sentirsi rappresentato, pur avendo voglia di credere in
certi valori. Quando uno sfogo è così umano penso
che debba essere ascoltato.
Come ti senti da cittadino
in questa Italia del 2002?
Mi sento a disagio
soprattutto perchè abbiamo un presidente del consiglio che
è proprietario del più grosso impero mediatico. Lui
ha il diritto di governare, ma senza la possibilità di
usare quellimpero. Sono preoccupato dal fatto che
questanomalia è molto lontana dallessere
risolta.
Avresti voglia di impegnarti ancora in
politica?
Se come impegno intendi attenzione agli
altri, spero di farlo già. Spero che le mie canzoni e film
possano essere utili, indurre qualche riflessione, o disturbare.
Comè stata questa seconda volta alla
regia?
Molto divertente. Per Radiofreccia avevo
paura di non raccontare bene una storia a cui tenevo troppo.
Usavo uno strumento che non conoscevo bene e non avevo chiari
tutti gli effetti che producevano le mie scelte. Stavolta ho
passato dieci settimane qui a Rimini e sono stato bene, anche se
lavoravo sempre: sei giorni a settimana in cui andavo a letto
alle 5 di mattina, mi alzavo alluna, colazione, e poi
prendevo il computer per la scena del giorno. Unora dopo
ero sul set: ma non cera lansia della prima volta. Ho
capito perché i registi continuano a fare dei film: è
uno sforzo che non mi sembra più così
devastante.
In «Radiofreccia» cera il
tema della fatica di crescere. Anche qui?
In questo
film il tema della crescita è a rovescio. In Radiofreccia
cè il tema della difficoltà di crescere,
qui ci sono dei ragazzi che devono crescere troppo in fretta e
rimpiangono quel periodo. Così se lo vanno a cercare.
Cè
un personaggio, Giove, che ti assomiglia molto.
Giove
rappresenta alcune parti di me. Mi sono divertito a mettergli
addosso i miei stivali, a farlo cantare su un palco con i ragazzi
del mio gruppo. Ma cè una grande differenza tra me e
lui: Giove cerca nella musica una purezza estrema, suona della
musica, il blues, che conoscono in pochissimi, sapendo che non
potrà mai viverne. Ma è anche uno che, come me, va
molto verso la vita, crede nel lavoro quotidiano, nel dover
affrontare la fatica. È quello che ho cercato di
raccontare in Una vita da mediano.
Hai avuto la
tentazione di fare quelle scelte musicali?
Mi piace il
blues, è il big bang di tutta la musica popolare del
secolo scorso e di questo. Però è un genere che non
mi appassiona fino in fondo. Certo, quando ho iniziato a cantare
a trentanni non avevo direzioni, né progetti. Non
pensavo che le mie cose potessero funzionare.
Guccini
ormai è sempre più scrittore di romanzi. Sta
accadendo anche a te con i film?
Il cinema è
uno strumento che lascia molto spazio. Le canzoni sono un mezzo
più ridotto, con meno parole, problemi di metrica e di
suoni. Però cè lebbrezza di andare sul
palco: la più grossa esperienza emotiva che uno possa
provare. La mia natura è quella di salire sul palco. Ma se
avrò altre idee per un film ci proverò ancora. In
fondo, perchè no?
Intervista di Andrea Carugati
L'UNITA' 11/02/2002
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