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Ligabue, voglio coltivare la speranza |
Sta scrivendo un nuovo romanzo, ha una nuova storia sentimentale. Non è cambiato, però. Ligabue è l'idea contadina del far bene. Dell'applicarsi, ostinato anche col vento contrario. Oggi esce Giro d'Italia, doppio cd live sul tour semiacustico che lo ha portato nei teatri d'arte. Ma anche autoritratto di un'artista che è passato, in poco più di dieci anni, dal successo rock ai libri e al cinema. Una versatilità irritante, per molti. Ma che Ligabue, 43 anni, ripaga con una distanza di protezione, con barriere umorali e ballate, spesso al vetriolo. Ligabue, perché portare le canzoni rock a teatro? Le canzoni sono fatte di parole. La gente avrà pure fretta, ma mi piace che si accorga di un testo. Nei teatri, con arrangiamenti più pacati, aveva questa possibilità. L'è andata bene, no? Ma è stata una sfida. Suonare da seduto, per uno che fa rock, è una tortura. Per fortuna, ogni sera si cambiava: ho suonato nelle arene, nei palasport, nei teatri lirici, persino sulla neve a 2500 metri. Ho rielaborato 80 canzoni, più o meno tutto il mio repertorio, tredici anni di carriera. Come si fa a durare tanto? La vita ti dà tante possibilità, basta coglierle. Io sono un privilegiato: a primavera esce un mio romanzo. In una canzone usi 150 parole, un film dura un paio d'ore, ma le 220 pagine di un libro coinvolgono solo te: non hai tutta la gente di un tour o un film. E poi rischiare su fronti diversi tiene vive le canzoni: se mi annoiassi, diventerei ripetitivo. Non voglio andare dietro le mode. Non si invecchia mai? Quest'estate ho visto i Rolling Stones: mi hanno fatto coraggio, sentivo dire che a 60 anni sono patetici, invece è il contrario. Il rock'n'roll, anche come idea, vive grazie a loro. Altrimenti sarebbe in via di estinzione. Vuole arrivare a quell'età? A trent'anni mi dicevo come farò a cantare Ballando sul mondo a 45 anni? Bene, ora ne ho 43 e mi sento benissimo. Di questi tempi, è facile scrivere canzoni? Una volta hanno chiesto a Dylan perché non scrivesse più nulla di politico. E lui: perché le canzoni non hanno più quell'utilità. Ha ragione: c'è tanta di quell'informazione che le canzoni sono come un fruscio, un rumore di fondo. Dylan lo ha capito per primo, e preferisce cantare d'altro. E lei cosa vuole cantare? Di cose che conosco bene. Non so fare analisi politiche, le mie sono sensazioni da uomo della strada. Preferisco raccontare il mio punto di vista su vita, amore, morte, amicizia, rabbia e indignazione. Tutto espresso con ostinazione. Ma anni fa ci ha provato. Sì, una sola volta con A che ora è la fine del mondo. Ci dicevano che la tv non conta in termini elettorali, e il giorno dopo Berlusconi vinse le sue prime elezioni. Volevo solo correggere quel pensiero: la tv conta eccome. E dieci anni dopo sono ancora sicuro che, se domani fosse la fine del mondo, molta gente passerebbe le ultime ore davanti alla televisione. E l'anchorman starebbe in video sino all'ultimo. C'è poco da essere allegri. Probabile, eppure tutte le mie canzoni ruotano sulla speranza. Credo che se smetti di sperare, inizi un po' a morire. Come fai a essere felice, se gli altri stanno male? Devi dare il tuo contributo di speranza. Lei è molto ostinato? Parecchio, e anche orgoglioso, che non è una bella dote. Ma la coerenza deve aver un senso, altrimenti ti sfugge il senso delle cose. La sua vita, anche sentimentale, è cambiata molto. Era preparato? Il mio edicolante, che mi vede ogni mattino, controlla se il successo mi abbia cambiato. Curioso, no? In quanto alla separazione da mia moglie Donatella, non pensavo ad una soluzione così drastica. Ma con lei sono stato felice per 15 anni. In questo album c'è una canzone che suona come autocritica? Sì, è Il giorno di dolore che uno ha. L'ho scritta anni fa per un amico che stava morendo. Non sapevo più cosa dirgli, ed è nata la canzone. Con inevitabili elementi di retorica, ma anche con una forte emozione. Ecco, io scrivo in maniera emotiva: è un pregio, e forse anche un difetto. Intervista di Renato Tortarolo IL SECOLO XIX 20/11/2003 |
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