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TEATRO

Teatro. L'utopia ha cinquant'anni. Conversazione con Judith Malina.

I capannoni industriali dell'ex Snia-Viscosa, sulla via Prenestina, hanno ospitato negli ultimi dieci giorni di ottobre il Living Theatre, con la messa in scena di un rifacimento di Mysteries and smaller pieces e l'ultimo lavoro Utopia di Hanon Reznikov, attore del Living e compagno anche nella vita di Judith Malina. Lo storico gruppo americano, fondato nel 1947 a New York da Julian Beck e Judith Malina, si trasformò ben presto in laboratorio collettivo scegliendo un impegno politico più esplicito: luoghi di rappresentazione negli anni '70 divennero allora le strade delle favelas, i cortili delle carceri, le baracche delle periferie più degradate, gli spiazzi antistanti le fabbriche occupate. E' dunque in continuità con un percorso artistico di grande coerenza che il Living ha scelto di ripresentarsi al pubblico romano in uno spazio politico come quello dell'ex Snia-Viscosa, oggi centro sociale grazie ad un comitato di quartiere che si batte da anni per la creazione di un parco naturale e per l'apertura di spazi di socialità ai cittadini.
Judith Malina mi accoglie mentre si prepara l'ultima rappresentazione di Utopia. Con lei abbiamo parlato della affettuosa accoglienza del pubblico che, numeroso, è accorso per rivedere il Living, degli ultimi spettacoli, ma soprattutto della sua vita...


D. Nel '64 Mysteries and smaller pieces debuttava a Parigi. Lo spettacolo segna una svolta nel vostro lavoro: finisce il teatro di finzione, la cosa più importante è la presenza dell'attore sul palco che interagisce con gli spettatori. Come è cambiato il pubblico in questi 30 anni?


R. "Credo che oggi si viva in un momento storico di grande attesa e gli spettatori convogliano questa tensione in un forte bisogno di rassicurazione; esitano ad interagire con noi più di prima perché hanno paura di commettere qualche passo falso che li scopra troppo. Negli anni '60 sentivi che era necessario svegliare le persone, scuoterle dal torpore dell'innocenza; ci si metteva in gioco senza un obiettivo preciso più facilmente che oggi. Sappiamo dove vogliamo andare, una società più giusta e libera dalla violenza e dalle costrizioni di ogni sorta, ma non sappiamo come arrivare: senza l'energia della speranza, senza un briciolo di utopia, è però impossibile per noi cercare la strada insieme agli spettatori".


D. 50 anni di lavoro del Living Theatre. Quali sono stati i momenti più importanti di questa lunga esperienza?


R. "Tanti sicuramente. Ma è il '68, con i suoi fermenti rivoluzionari, quando l'attività teatrale, sociale e politica era bruciante, ad essere per me, ancora oggi, un punto di riferimento artistico ed esistenziale. Noi oggi certo andiamo avanti verso il prossimo momento di energia con difficoltà ed è certo più piacevole fare teatro rivoluzionario in tempi rivoluzionari; ma in un momento storico di tensione pre-rivoluzionaria come è questo, è fondamentale perseverare, è molto più necessario".


D. Libertà, pace, antimilitarismo, anarchia: tutto ciò sta alla base del teatro del Living. L'elaborazione politica ed artistica di Judith Malina incontra il femminismo?


R. "Io credo che le donne abbiano una tendenza naturale verso una risoluzione dei conflitti non bellicosa. Gli uomini risolvono ogni cosa giocando alla guerra; la nostra è una società maschilista che, in quanto tale, produce esercito e polizia. Appartiene alle donne la possibilità di insegnare un modello alternativo che superi la necessità di distruggere tutto quanto è diverso. Creare un nuovo mondo non può essere che compito loro".


D. L'apprendistato con Piscator, il lavoro con Julian Beck, la riflessione di Artaud, vengono dopo una formazione teatrale già ricevuta in famiglia grazie a tua madre, Rose Zamore, che era un'attrice...


R. "Quando mia madre era giovane e viveva nell'ambiente artistico di Weimar, pensò di seguire il lavoro di Piscator e aggiungersi alla sua compagnia. Le sue aspirazioni artistiche dovettero fare i conti con il fatto che mio padre era un rabbino: subito dopo sposati rinunciò a tutto perché era impensabile allora che la moglie di un rabbino potesse essere attrice. Nel '28 ci trasferimmo a New York; qualche anno dopo Piscator, anche lui ebreo e dichiaratamente comunista, abbandonò la Germania per fondare una scuola nella quale entrai subito dopo aver finito il liceo. Come vedi, ero destinata al teatro ancor prima di nascere...".


D. La formazione con Piscator è stata determinante, ma avrebbe voluto che tu rimanessi un'attrice e non diventassi una regista...


R. "Piscator era un maschilista. Dopo tre giorni alla sua scuola come attrice, avevo già capito che volevo diventare regista, anche se in modo molto diverso: volevo produrre, creare, recitare, tutto insomma. Nel suo rifiuto iniziale Piscator fu durissimo: "Le donne abbandonano il lavoro quando si sposano - mi disse - è meglio che tu diventi attrice, sarà più facile..", definendo il lavoro dell'attrice come un impegno che può essere rispedito indietro davanti alla prima grande vocazione di ogni donna che è la famiglia. Ero a confronto con un machismo implacabile! Allora ho fatto una cosa della quale mi vergogno un po’, ma era l'unico modo per spuntarla: ho pianto e singhiozzato fino a quando lui, non potendone più, mi ha 'concesso' di formarmi come regista. Ma ha sempre avuto sfiducia nella mia capacità di creare teatro. Ed è morto troppo presto per vedere che anche una donna può riuscire in quello che egli riteneva un compito solo maschile: l'atto creativo è degli uomini, si sa, ed è autoritario. Sarebbe stato impensabile per Piscator un lavoro collettivo come il nostro".


D. Le altre donne della tua vita: Rachél Felix, la grande attrice francese dell’ 800 che hai detto essere stata fondamentale per te, il magistero irriverente di Valeska Gert, l'esperienza in carcere con Dorothy Day...


R. "Ci sono molte donne che hanno dato a me coraggio, idee, ispirazione. Rachél Felix era una ragazza ebrea che cantava per le strade di Parigi; diventò un'attrice classica, un idolo dell'alta società parigina dalla quale fu estromessa bruscamente per un gesto di intemperanza. Pensavo di voler diventare come lei: la mia Phedre è stata un omaggio alla sua migliore interpretazione. Valeska Gert era una artista un po’ folle che gestiva il Begger-Bar, un cabaret nel quale giovanissima lavoravo: era una danzatrice grottesca che ha contribuito all'espressionismo di base inventando il 'principio di irregolarità', uno stile molto frammentato che ha rotto la simmetria e l'armonia classica. Mi ha dato una pre-artaudiana vista sulle possibilità del grido, del movimento non liscio bensì energico, ma non avrebbe mai riconosciuto il suo magistero. Era una donna che viveva fuori dalle regole, una vera femminista. Dorothy Day era una ispirazione per molti. Nel '55 ci trovammo nella Women's House of Detenction a condividere la stessa cella per un mese (N.d.R. Malina fu arrestata nel '55 per aver partecipato ad una manifestazione pacifista); Dorothy aveva fondato il Catholic Workers molti anni prima e si definiva una cattolica anarchica. Aveva rifiutato le forme date dalla chiesa ma senza uscirne, riusciva a conciliare l'autorità della chiesa con la libertà dell'anarchia. Grazie a lei imparai a guardare alle altre detenute - circa 900 e quasi tutte prostitute e tossicodipendenti che morivano ogni giorno per astinenza - senza avere la pretesa di cambiare tutto e subito o di 'guidarle'. Mi insegnò a guardare senza la superiorità della compassione, ascoltando ciò che questa donne avevano da dire. La sua lezione è stata incredibile.


D. Tua figlia, Isha Manna, lavora con te al Living. Che significato ha per te questa presenza?


R. "E' difficile pensare alla lezione che, come madre, lascio a mia figlia. Isha è nata durante la rappresentazione di Antigone ed ha girato con me da subito per l'Europa. E' cresciuta in un ambiente abbastanza libero e credo che la trasmissione non autoritaria del sapere produca molti più vantaggi che danni. E' una donna sensibile; adesso fa la pittrice ma lavora anche a Wall Street. Naturalmente discutiamo molto ma la ribellione è necessaria in ogni sua forma".


D. I personaggi femminili che hai interpretato - Fedra, Antigone, Maudie - esprimono tutti una grande forza, la volontà di rompere con un ordine dato..


R. "Ognuna di queste figure esprime un aspetto delle possibilità di una rivoluzione femminista. Fedra rifiuta le limitazioni sessuali di una donna abbandonata dal proprio sposo e vuole infrangere persino le barriere del tabù dell'incesto. Antigone è il rifiuto della legge dello stato, l'assunzione di responsabilità che la porta, da sola, ad andare contro tutto. Maudie incontra Jane e le cambia la vita: l'esistenza lussuosa e regolare di Jane è sconvolta dall'irruzione violenta di una vecchia poverissima e disordinata che la reclama tutta per sé. Questa è la storia di Jane e di come è importante la verità del dolore, della miseria di altre vite per capire la propria...".


Nel frastuono dei preparativi per la messa in scena, vicinissime, a proteggere parole e risate dell'altra dalle voci degli attori della compagnia, ci siamo congedate. Mi sarebbe piaciuto farmi raccontare ancora della sua vita, delle attrici con cui lavora, dei suoi progetti, ma nella sala accanto il pubblico rumoreggia e sono costretta a lasciarla andare...

Roberta Corbo

E' in http://www.mclink.it/n/dwpress/dww18/art3.htm


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