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CARLO LUCARELLI

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Tutta colpa di Scerbanenco

Lo so che ci sono opere più importanti, ponderose e fondamentali, lo so che non è storia della letteratura, ma con i libri è come con le persone, ne incontri una in un momento particolare e la tua vita cambia, e anche se poi ne incontri di più belle, affascinanti e meravigliose, di quella, di quella persona lì, te ne ricordi sempre.

A me è successo a tredici anni con I ragazzi del massacro, di Giorgio Scerbanenco. Ero a casa di mio nonno, una domenica pomeriggio, non sapevo cosa fare, non volevo fare i compiti, alla tivù non c'era nulla e avevo letto quasi tutto nella sua libreria, a parte Storia delle Religioni e il Manuale del Fresatore Moderno. Poi vedo questo librettino giallo, sottile, con la costola bianca e due piccolo occhi neri che sembrano guardarmi. I gialli mi piacciono, ne ho giù letti tanti, e questo parla addirittura di un omicidio avvenuto in una scuola, e la vittima è un insegnante, per cui, anche solo per simpatia di classe, comincio a leggerlo. E scopro un mondo. Un altro mondo. Primo: non credevo che si potesse scrivere così. Lo stile di Scerbanenco è asciutto, veloce e diretto, a volte addirittura sgrammaticato e quasi dialettale. Le virgole, spesso, scombinano la frase, la inceppano, e ai dialoghi mancano verbi e soggetti. E' perché è lo stile del linguaggio parlato, ma non quello pensato dagli scrittori quando vogliono imitarlo, quello parlato veramente, con la voce, e te ne accorgi appena te lo fai risuonare in testa, sonoramente, come se leggessi a voce alta. Poi, appena te lo fai risuonare in testa, sonoramente, come se leggessi a voce alta. Poi, appena il periodo scorre e corre il rischio di andare troppo veloce, ecco una parola strana, anche antica, che blocca tutto, strana, anche antica, che blocca tutto, fa riflettere su quello che si sta leggendo e fa capire che quello stile così realistico è il frutto consapevole della scelta di un grande scrittore. Ripeto, non è storia della letteratura, prima di lui lo avevano già fatto in tanti e dopo lo faranno anche in troppo, ma io è lì che lo scoprii per la prima volta, con Giorgio Scerbanenco e I ragazzi del massacro.

Secondo: non credevo che certe cose succedessero davvero. Che il mondo fosse così disperato, feroce e cattivo. I ragazzi del massacro parla di una classe di ragazzi del riformatorio che vengono spinti da qualcuno a massacrare la loro maestrina nel modo più brutale e violento che si possa immaginare. C'è la prima pagina del romanzo, con quel laconico “è morta” detto da una suora dell'ospedale a cui segue una brevissima e cruda descrizione del corpo della maestrina, che ancora, dopo tanti anni di pratica criminale, faccio fatica a leggere. E non perché ci sia chissà cosa, ma solo per un aggettivo e un particolare concreto che rendono quella pagina più dura di quelle del Brett Easton Ellis di American Psyco.

Una maestrina del corso serale massacrata dalla sua classe di ragazzi difficili, eccitati e sconvolti da una bottiglia di anice corretta agli stupefacenti, e spinti ad agire da una presenza estranea. Chi lo ha fatto? Chi ha portato la bottiglia di anice in classe? E perché? Perché quel massacro?

Io ero già un lettore di gialli, sulla carta ne avevo viste anche di più grosse, ma quelli erano libri e si capiva, leggendoli, che certe cose erano il parto della fantasia dello scrittore. Potevi pensare, vabbè, è ovvio, è un giallo, ma qui no, qui le cose erano vere anche se non erano mai accadute, forse. Le parole, le atmosfere, le ambientazioni, i personaggi ti dicevano questo non è soltanto un libro giallo, apri la finestra e guarda fuori, da qualche parte questo sta succedendo davvero.

Terzo: non avevo mai letto di un personaggio così. Così contraddittorio e complesso come Duca Lamberti, ex medico radiato dall'ordine, che si è fatto tre anni per aver praticato l'eutanasia ad una vecchia signora ammalata di cancro, recuperato da un amico del padre poliziotto che lo ha associato, in qualche modo, alla questura di Milano.

La gente di cui avevo letto fino ad allora era buona o cattiva, onesta o criminale, di destra o di sinistra, soprattutto quando si trattava del detective di un giallo. Ma di questo Lamberti io non ho mai capito nulla, se non che è uno che sta male, che si tormenta, che anche se sembra cinico e sempre incazzato, alla fine è solo disperato e molto fragile. Uno che sembra partire sempre con solide antipatiche certezze, tipo che i criminali bisogna ammazzarli tutti, che per chi viola le regola non c'è posto nella società, che il delinquente è tale quasi per nascita. Ma che poi alla fine del libro che non lo sa neanche lui cosa pensare, che prova uno strano e inspiegabile sollievo a sapere che il personaggio più bastardo e schifoso della storia non è morto, e così anche negli altri romanzi, dove finisce sempre dall'amica fidanzata, psicologa di sinistra e femminista, a dirle senti, Livia, mi spieghi perché io.

Ma credo che oltre a tutto questo I ragazzi del massacro sia stato per me l'incontro con un narratore, un artigiano del raccontare, un artigiano del raccontare storie, con passione, con impegno e anche con rabbia. Uno che sapeva far andare quel motore magnifico che è la narrativa, utilizzando i meccanismi del genere senza lasciarsene intrappolare, anzi, fregandosene a volte, con naturale indifferenza, come se fosse pacifico che quella storia doveva essere raccontata così e basta.

Sì, è vero, ce n'erano stati tanti prima e ce ne saranno molti anche dopo di grandi narratori, ma per me lo Scerbanenco di quel romanzo era il primo palombaro della metà oscura delle cose, così oscura come non avrei mai immaginato che potesse essere. La metà oscura della gente, la metà oscura dell'Italia, la metà oscurissima di un momento storico che per lui erano gli anni Sessanta del boom economico e per me che leggevo la metà dei Settanta, ma che va bene anche oggi, perché i difetti di quella zona grigia degli individui, del sistema e del potere, nel nostro paese, ci sono ancora tutti, e forse anche qualcuno di più. Non era soltanto il realismo da narratore lucido con cui quella storia veniva raccontata a sbigottirmi, era la crudezza feroce con cui passavano sulle pagine ragazzi di vita, squallidi esponenti della mala, prostitute, poliziotti, assistenti sociali e borghesi benpensanti, uno sguardo ricco di particolari essenziali e precisi, come quello di Gadda, ma cinico e diverso, pieno di attenzione come quello di Pasolini, ma diverso e feroce. Un realismo cattivo, che sembra disperato e nichilista, ma che a leggerlo bene, fino in fondo, ci si accorge che non è così, non è disperazione, è rabbia, è passione, è la passione del narratore che racconta una storia perché c'è qualcosa che non va, che gli fa male, e vorrebbe cambiarla. E' la mano davanti alla locomotiva di cui scriverà Scerbanenco più avanti, in una microbiografia, dove racconta di quando cercava di fermare gli aspiranti suicidi rispondendo alle lettere della posta del cuore di un settimanale femminile, e ti racconta di quella volta che non c'è l'hai fatta, che ci ha messo tutta la sua perizia di un narratore appassionato ma la signora ha preso lo stesso i barbiturici, ma anche di quella in cui la signora gli ha risposto dicendo che si sarebbe uccisa lo stesso, e lui le ha risposto di nuovo e fino a quel momento si stavano scrivendo ancora e lei era viva. E' sempre quel senti, Livia mi spieghi perché io, senza retorica, senza verità preconcette, solo curiosità, rabbia e realismo, e talento sicuro di narratore.

I ragazzi del massacro è un esempio di tutto questo, di quello che può fare un narratore quando mette in scena la metà oscura della realtà, con tutte le sue contraddizioni. Anche le proprie e quelle del suo tempo, quelle che portano Duca Lamberti e forse lo stesso Scerbanenco a chiamare invertiti gli omosessuali, a parlare di contro naturalmente, ma che poi lasciano sulla pagina uno dei ritratti più commoventi e sensibili proprio nella figura del ragazzo omosessuale. Ci ho passato tanto tempo, dopo, a chiedermi se Scerbanenco fosse di destra o di sinistra, o proprio di destra o anche un po' di sinistra, e quel romanzo e anche gli altri che poi ho letto, anche molto diversi tra loro, per storia e per genere, ma alla fine ho deciso che non me ne importava, nonostante fossero anni in cui certe cose contavano e bisognava saperle, l'ho iscritto d'ufficio alla sinistra un po' anarchica del dubbio critico e della rabbia, dell'emarginazione in tutti i sensi, anche letteraria, e me lo sono tenuto.

Dopo è venuto un film come Io ho paura di Damiano Damiani, anche quello forse niente di fronte ai capolavori della storia del cinema, niente di fronte a cose più importanti e fondamentali, ma è stato lì, all'uscita di un cinema di San Marino, che ho imparato a pensare male e a guardare le trame della storia d'Italia, quella più recente, pensando che forse si faceva peccato ma ci si azzeccava sempre. E dopo, anche se avrei potuto scoprirlo prima perché l'articolo è del '74, quell'Io so, di Pasolini, che raccontava ad ogni scrittore come usare il buon senso nello scrivere certe brutte storie e soprattutto perché farlo.

Ma prima di tutto, per me, c'è stato I ragazzi del massacro, letto in poche ore sul divano di mio nonno una domenica pomeriggio in cui non avevo voglia di fare i compiti, e davvero per i libri è come per le persone. E' passato tanto tempo, ne ho letti anche di migliori e di più grandi, ma quel libro lì, io me lo ricordo sempre.

Carlo Lucarelli – L'UNITA' – 11/08/2002

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