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MAURIZIO MAGGIANI

IL SECOLO XIX 3/10/2001

Siamo già dei reduci

Possiamo metterla in molti modi e fare ogni distinguo possibile, resta il fatto che sono tre settimane ormai che siamo in guerra. Le prime cinque, sette, dieci pagine dei quotidiani, il primo quarto d'ora del telegiornale, le copertine e gli strilli si incaricano ancora oggi di farcene fare una ragione, una certezza, un'ossessione. Leggete le parole dei titoli, ascoltate quelle dei commentatori, che neghino o affermino, quelle più visibili e audibili, quelle scritte più in grande e dette a voce più alta, con maggiore enfasi o emozione, concernono e dattagliano la guerra. Siamo sensibilizzati alla guerra, avvertiti, consigliati, predisposti a ciò che è accaduto, accade, accadrà. Coadiuvati da grafici e simulazioni sappiamo tutto anche di quello che forse non potremo sapere mai, e la certezza, reiterata perché la si tenga ben a mente, è che la guerra non riguarda le montagne di sassi di nome Afghanistan all'altro capo del mondo: la guerra, se già non c'è, potrà essere dappertutto. E noi? Dico noi non quando dibattiamo o discutiamo, ma noi mentre semplicemente viviamo, di che cosa parliamo quando non parliamo di guerra?

Di che ci occupiamo, e, soprattutto, a cosa pensiamo? Forse alla guerra, soltanto alla guerra, e di tutto quello che la guerra sta portando con sé? Sembrerebbe di no; almeno qui da noi la superficie del vivere non è un granché mutata dall'undici settembre. La superficie. Dell'altro, di quello che siamo dentro, non sono per niente sicuro.

Mi chiedo se non stia accadendo la cosa peggiore, la più dura. Che mentre ci occupiamo di vivere, banalmente, semplicemente di vivere pensando alla vita, la guerra non si sia già insinuata sotto il fondo dei nostri pensieri. Lì, in quella parte di ciò che siamo che c'entra poco con la riflessione e il dibattito ragionevole, il pensare alla guerra non è un atto della volontà: lì siamo pensati dalla guerra.

Se entrando in una banca a chiedere conto di quanto avevamo messo da parte per sistemare il bagno di casa, scopriamo il riverbero della guerra persino sul nostro miserando bagno, ma uscendo ce ne andiamo per la nostra strada in compagnia non solo di una piccola sconfitta finanziaria; portiamo con noi una sconfitta ulteriore, più drastica: un poco di futuro in meno e meno ottimismo, e meno voglia di mettere mano non solo al bagno, ma a tutto il resto.

Se proviamo a rifletterci su, forse scopriamo che anche i nostri sentimenti più intimi cominciano ad essere segnati con il nerofumo della guerra. I nostri pensieri d'amore, l'incoercibile speranzosità amorosa, la gioia e l'ottimismo che ci vengono dall'amare ed essere amati, sono quasi impercettibilmente rosi da una sottile angoscia, da una subdola malinconia. L'amore in tempo di guerra?

Per non parlare dei nostri sentimenti civili, della frustrazione che subiamo giorno dopo giorno nei nostri aneliti più radicati. Accettiamo che ci venga riferito, buttandolo giù come una medicina che va presa e basta, di atomiche, virus, nervini, limiti alla libertà, necessità di segretezza e di arbitrio. E' come se cominciassimo ad essere predisposti psicologicamente per non attenderci nessuna buona notizia. E allora la guerra non è solo la prima notizia di tutti i giornali, i telegiornali e radiogiornali: la guerra diventa la prima notizia della nostra vita interiore.

Se così è siamo già dei reduci, o delle vittime civili, segnati in ciò che di più prezioso abbiamo. Necessitati di una rieducazione, di un programma di reinserimento quando la guerra finirà. E ci dicono che forse non finirà nemmeno tra un anno, nemmeno tra due. Mi è capitata una cosa banale che mi ha fatto molto riflettere. E' successo all'kea, il tempio della correttezza, del buon gusto democratico, dell'amichevolezza. Ho voluto pagare degli acquisti con un assegno e l'impiegata addetta mi ha chiesto di esibirle due documenti per accertare la mia personale identità. Due. Non li avevo. Viaggio per il mondo, compro e consumo munito di un unico documento.

Ma il punto non è questo, il punto è che ho reagito d'istinto con una durezza che non mi conoscevo. Perché? Perché con cacchio che il signor Ikea ai suoi clienti svedesi chiede due documenti per un assegno. Li chiede a me, il mediterraneo inaffidabile, potenzialmente moroso, fedifrago, membro dell'inferiore civiltà che contempla l'imbroglio. Si è messo sotto i piedi il signor Ikea il mio amor proprio di occidentale sempre solvibile, mi ha sbattuto in faccia il fatto che di me non si fida. Di me che credevo di essere nel cuore dell'occidente e in un attimo mi sono sentito sospinto giù, da un'altra parte: l'islamico del signor Ikea.

In altri momenti avrei semplicemente fatto una battuta e lasciato perdere il bel divano con le rotelle. Ieri, chissà perché, ho sentito e sofferto in un insignificante atto di ostile burocrazia uno dei peggio orrori che la guerra ha resuscitato nel mio cuore da retaggi ormai fossili: la distinzione e la cernita non tra gli uomini, ma tra i popoli, non tra le anime ma tra le civiltà. Questo mi spaventa come l'atomica, mi spaventa a tal punto che basta un niente.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 03/10/2001

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