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MAURIZIO MAGGIANI

I soldi li mettiamo sempre noi



C'è scritto, adesso lo sappiamo. C'è scritto recessione. Mi correggo, c'è scritto recessione nei giornali cattivi, nei giornali buoni: stagnazione. Perché pare che al popolo la fanga dello stagno faccia meno impressione dei recessi cavernosi. Così l'Istat dice: sarebbe recessione, ma non è proprio così a guardare il pelo nell'uovo; il pelo dice che è solo stagnazione. Siamo nella morta gora. Tutto fermo. Sempre meglio che precipitare indietro. Grazie tante per l'informazione, signora Istat, fino ad oggi non si sapeva, fino ad oggi ci pareva di vivere in piena cuccagna. Ieri andavamo in giro con mazzi di euro in tasca senza sapere come spenderli, questa mattina un buco maligno ce li ha risucchiati via.

La stagnazione è mondiale: un solo mercato, un solo destino. Ma ha anche le sue specificità regionali, locali. C'è quella tedesca, quella americana, quella giapponese, e c'è la nostra. I tedeschi, ad esempio, si sono trovati all'incasso il cambialone che hanno firmato con la riunificazione; trenta milioni di nuovi cittadini a cui assegnare una pensione senza che abbiano versato un contributo, cittadini a cui garantire un tenore di vita quotidiana che non li faccia sentire nostalgici dei brutti tempi andati. Tanto per informarvi, oggi i tedeschi godono ancora di un potere d'acquisto tra i più alti d'Europa e sono quelli che lavorano di meno nel mondo occidentale. Quando il nostro primo ministro dichiara di lavorare come un tedesco vuole dirci che passa metà della sua giornata a leggere romanzi, a passeggiare sul lungofiume e a bere birra. Beato lui.

E c'è la nostra stagnazione. Stagna la produzione come altrove perché non compriamo abbastanza per farla aumentare. Ingrati, abbiamo snobbato il “simpatico” ma pressante invito televisivo della presidenza del consiglio: comprate, comprate di tutto, riempitevi i sacchetti di quello che volete e farete felice l'Italia. Stagna la produzione perché non comprano la nostra roba all'estero. Non la comprano perché non è appetibile. I cinesi, i turchi, i cingalesi hanno imparato a fare quello che facciamo noi e lo vendono a un terzo del nostro prezzo. Dovremmo saper fare cose che loro non possono, cose molto specializzate e sofisticate. Non lo facciamo perché non ci interessa investire in ricerca e quella roba richiede, molta, moltissima applicazione scientifica e tecnologica. Non ci interessa fare ricerca perché significa progettare a lunga scadenza e i nostri industriali amano arraffare i soliti pochi, maledetti e subito. Lo stato non fa ricerca perché costa molto e non da voti subito, perché il mondo dei ricercatori è ugualitario, meritocratico, fantasioso, tutte qualità invise al potere, siano baroni accademici o ministri.

C'è un'industria napoletana che produce utensili industriali in una lega d'acciaio che gli svedesi non sanno imitare. Occupa un paio di centinaia di persone. C'è un'industria piemontese che produce automobili che impietosiscono persino gli operai che le costruiscono. Occupa, o occupava, qualche decina di migliaia di persone. Vedete un po' voi. Bisognerebbe che ci fossero mille imprese come quella napoletana e nessuna come quella piemontese. Sarà mai possibile? Noi non compriamo perché non abbiamo soldi, semplice. Non abbiamo soldi perché ci pagano male, non li abbiamo perché ce li portano via con il sistema del furto con destrezza.

Sono stato una settimana di vacanza a Ischia. Gli anni scorsi le settimane erano due, ma sono anch'io in piena stagnazione. Anche Ischia lo è, alla fine di luglio era semi deserta. A Ischia il cambio ufficiale è un euro per mille lire. Ho incontrato una vecchia campagnola che vendeva le sue perette a cinque euro al chilo e lo stabilimento balneare che mi messo una zuppa di pesce 42 euro. La zuppa faceva schifo. Nella confusione iniziale ci siamo caduti quasi tutti, ora sappiamo che un euro è duemila lire. Lo sappiamo perché li abbiamo appena finiti. Mi dicono che il cambio di Ischia è stato adottato in molte altre località, vi risulta? Non ci ha impoverito l'euro, ma l'uso italiano dell'euro.

Speculazione. Qualcuno si è ben arricchito e oggi impreca contro la stagnazione. Vi risulta che ci stata qualche azione dura e decisa contro la speculazione? Ci sarà contro la stagnazione? Contro la stagnazione ci sono due ricette evergreen: la guerra e le opere pubbliche. Gli Stati Uniti puntano sulla guerra, noi sulle grandi opere. Lo abbiamo sempre fatto, siamo i più grandi costruttori di cattedrali nel deserto.

Come si finanzieranno i progetti? La casse dello Stato stagnano, vendere il patrimonio si può fare solo una volta. Il ministro Lunardi dice che il momento è giunto per rivedere le tariffe ferroviarie e autostradali. Ecco dove si possono trovare i soldi: ce li mettiamo noi che andiamo in treno e in auto. Devo solo capire dove troverò i soldi, visto che c'è la stagnazione dei miei introiti. Se dovrò pagare di più i servizi, la mia stagnazione diventerà recessione, anche per l'Istat.

Oltre a quello degli speculatori, c'è un solo reddito che non stagna, anzi, si sviluppa: quello dei parlamentari, che l'altra settimana si sono fatti un altro aumentino. Per le nuove esigenze, hanno spiegato. Esigenze di che? Il Parlamento mi sembra quello di sempre, al suo peggio. Avranno per la fine dell'anno l'immunità, hanno la deroga al codice della strada per le loro auto di servizio. Saranno gli unici nel Paese che guadagneranno quello che gli pare, che potranno offendere e diffamare a gogò, scorazzare a duecento all'ora. Si stanno organizzando in casta. Per mantenere in vita una casta ci vogliono milioni di servi. Gli stessi servi che vanno bene anche per ingrassare gli speculatori. Eccoci qua.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 10/08/2003

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