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SANTARELLINA FLORIDORO FELICE DI VIVERE |
Ho
conosciuto in una piccola vecchia casa di un remoto paese di
Garfagnana una piccolissima vecchia signora. Si chiama Santarellina e
ha una bella e vaporosa permanente color mogano, due pendini di oro
antico ai lobi delle orecchie e un largo sorriso lucente di due
capsule d'oro. La signora Santarellina mi ha parlato nella sua lingua
garfagnina seduta nobilmente eretta, muovendo l'aria intorno a sé
con le sue piccole mani ossute perché potessi meglio capire
concetti distanti, e mi ha così raccontato la sua storia. È
un nome da orfana Santarellina Floridoro, un bel nome da trovatella.
La sua orfanità è finita a otto anni, quando una
famiglia di contadini se l'è presa per fare i mestieri in una
casa di molti uomini e niente serve. A dodici anni è sembrata
così robusta e capace che un'altra famiglia contadina se l'è
presa per fare i lavori pesanti del bosco. Così fino ai
vent'anni Santarellina ha curato la selva di castagni e ha portato i
suoi carichi. Alla stagione sua, una cesta di cinquanta chili di
castagne dal bosco al metato in alto, dove le castagne vengono messe
ad affumicare, e da lì al mulino dove diventano farina.
E
a vent'anni era già pronta per migrare, presa da un'altra
famiglia con maggiori ambizioni di fortuna. Per trentacinque anni e
dodici ore al giorno, Santarellina ha fritto fish & cips a
Newport. Non ha chiaro che paese fosse Newport e quanto fosse bello,
perché non ha mai avuto il tempo per dargli un'occhiata, ma
ricorda come d'estate friggesse per i turisti anche due quintali di
pesciolini e due di patate in un solo giorno. E poi, nel cuore della
sua maturità cinquantacinquenne, con i polmoni un po' troppo
saturi d'olio e una borsetta con dentro un pacchettino di sterline,
si è affrancata dalla servitù, è tornata al
paese e ha messo su un commercio, uno di quei negozietti di montagna
dove in due metri quadrati trovi quel poco e il tutto che serve a
tirare avanti una vita e una casa. Finché anche quell'età
è finita, e adesso Santarellina vive di tutto ciò che
è, di tutto ciò che ha fatto. Racconta di quando
portava castagne nella notte del bosco salendo il monte con gli
zoccoli che battevano sulla pietra serena. Racconta del peso, della
fatica, del dolore, del silenzio e dei lupi. Racconta della sua
solitudine -"sono nata vedova, io"- e del suo orgoglio -"mi
dicevano da bimba che mi sarei fatta gobba per i pesi e invece sono
ancora diritta". E racconta una quantità di storie, così
che la sua vita mi sembra gigantesca, monumentale, infinita. Ma nel
suo racconto, e negli occhi e nelle mani e sulla bocca, non trovo mai
ciò che sono indotto a cercare: la traccia di un dolore
intollerato, di una tragedia soverchiante, di una miseria disumana.
La signora Santarellina sembra unicamente compresa del fatto,
inoppugnabile, di essere oggi, qui, gioiosamente viva. E questo
successo -straordinario ai miei occhi- fa giustizia di ogni altra
cosa; riduce a puro accidente quello che, anche solo ad averlo
succintamente scritto, non può che apparirmi come tragedia di
miseria, di ingiustizia, di malvagità. Mi sorprende come
Santarellina racconti la storia della sua vita in perfetta coscienza
e assolutamente priva di rancore. Gioiosa e magnanima perché
vittoriosa; non solo abbastanza forte per portare pesi, ma più
forte di ogni peso sopportato.
E mi rendo conto di quanto la
vecchia, eretta, ricciuta Santarellina, sia più forte di me.
Di me che non riesco ad essere né più grande né
più forte dei modesti danni che la vita mi ha inflitto. Che ci
navigo dentro quei danni come se il rancore fosse una risorsa, e la
coscienza di ciò che sono, di ciò che è stato,
dovesse alimentarsi dell'insostenibile morso dei pesi che ho portato.
E so anche di non essere solo in questa debolezza. Direi addirittura
che siamo i più. Forse non è giusto chiederci di essere
grandi come Santarellina, forse non serve neppure a quanti tra noi
non hanno dovuto né dovranno cimentarsi nella vita come lei ha
dovuto. Ma mi chiedo cosa ci potrà essere di buono in un
vecchio signore, come spero di arrivare ad essere, che racconta le
sue storie senza il sorriso di Santarellina, senza la schiena
diritta, senza la sua gioiosa coscienza. E mi viene da credere che se
nel corso di questo secolo e di queste generazioni qualcuno potrà
incontrare ancora una signora Santarellina sarà assai
probabile che la troverà altrove da qui. facilmente tra quegli
uomini e quelle donne che saranno sopravissuti ai naufragi, alle
deportazioni e al disprezzo, quelli che chiamiamo disperati e da cui
ci difendiamo come dai lupi Santarellina. Quelli che ci sembra
impossibile possano sopravvivere ai pesi che noi stessi infliggiamo
loro. Qualcuno almeno tra loro sopravvivere, invece, e qualcun altro
lì starà ad ascoltare, e continuerà ad
imparare.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 25/07/2004
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