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Voglia di pattuglioni |
Sono quattro anni ormai che non vivo più nel Centro Storico. Ora vivo a Castelletto, in una piccola casa dove sedo la mia anima con il profumo di un vialetto di tigli; la sera mi siedo sui gradini di sant'Anna e lì la luce è così dolce e il silenzio così leggero,, che posso pensare al mondo come a qualcosa di tollerabile. Nel mio quartiere la gente mi saluta per strada e allo stesso modo saluta la signora maghrebina che vende fiori all'angolo della rosticceria.
Nel mio quartiere il vecchio arabo davanti alla pasticceria è aiutato a curarsi dalla gente che abita lì attorno. Nel mio quartiere la parrocchia è un centro sociale dinamico e fantasioso; nel mio quartiere la scuola elementare è in prima linea quando c'è da difendere la pubblica istruzione e la sua qualità.
E poi
il mio quartiere è tutto quello che è Castelletto nella
mente dei genovesi, bene o male che sia.
Di certo vivo in un posto
riposante, confortante e luminoso, poco eccitante ma assai adatto a
un uomo che vive e si procaccia da vivere lavorando a casa, scrivendo
storie che estrae dalla miniera di un'anima sempre in tormentoso e
tortuoso movimento. Posso dunque pensare di aver lasciato la casa del
Molo e quella di Cernaia per vigliaccheria, per la fatica, anche
fisica, di vivere nel cuore complicato della città, così
adatto alla meraviglia, fascinoso fino ad estenuare. Ma non me ne
sono andato per paura, questo no.
Per
caso o per miracolo, non ho mai, per tutti i venti anni che l'ho
frequentato, subito un danno o un'offesa, mai stato rapinato o
minacciato o che altro. E ho vissuto in Maddalena alla fine degli
anni Ottanta, quando si sparava per i caruggi, quando la
tossicodipendenza aveva generato una aggressività molto
pesante e invadente.
A
dire il vero, me ne sono andato in coincidenza con l'arrivo da
Castelletto, da Albaro, da piazza Martinez e persino da via Chiodo,
dei giovani architetti, dei giovani avvocati, dei giovani grafici,
dei giovani manager, e dei giovani osti e dei giovani ristoratori;
compagnia oltreché stimolante e rigenerante, bonificatrice. Ho
degli amici tra loro, come ne ho tra i vecchi abitatori, quelli che
sono rimasti attraverso le epoche e le bonifiche. E mentre io
continuo a vivere il Centro svagatamene - in virtù della
vecchia consuetudine e, immagino, perché alla fine me ne torno
a dormire a Castelletto - loro, gli amici, hanno preso ad avere
paura, a vivere nel loro sestiere con angoscia e incertezza.
Presto
comincerò ad avere paura anch'io. E la paura, a me come a
loro, non viene da vaghe e indistinte sensazioni di insicurezza, ma
dal fatto, puro, semplice, materiale, delle aggressioni violente,
gratuite e feroci delle bande di giovani latini. È una cosa
nuova, ed è angosciante e inquietante proprio perché
inaspettata oltreché indesiderata. Genova è riuscita
nel tempo a non avere un pesante problema di immigrazione. Siamo alla
terza generazione di immigrati africani, alla seconda cinese.
Naturalmente con reciproca fatica, alla fine la città e gli
immigrati hanno trovato una forma di integrazione.
Credo
che parte del risanamento del centro sia dovuto alla quantità
di negozietti e micro imprese che gli immigrati gestiscono nelle vie
meno appetite, quelle che fino a pochi anni fa erano sporchi deserti.
Non saranno boutique, ma sono un buon segno. E hanno clienti
di ogni etnia, compresa l'indigena genovese. Ma i nuovi arrivati, i
giovani maschi dominicani, ecuadoriani, sono un'altra cosa. Non ho
grandi teorie al riguardo, ma vivere la vita quotidiana è una
cosa molto pratica e concreta, e praticamente, concretamente vedo che
sono un'altra cosa.
Vedo
le ragazze, le madri di famiglia che lavorano 24 ore al giorno con
dedizione ignota a me stesso, vedo i loro mariti, i loro fratelli i
loro figli, appena ricongiunti, conversare sin dal mattino con
pittoresco accanimento nelle piazze che si sono scelti, dissetarsi
assiduamente con birra Heineken, confortarsi diuturnamente con la
loro musica, scazzottarsi generosamente in nome di urgenti questioni
d'amore. Demasiado corazon.
Mi
sbaglierò, ma temo che questo stile di vita rilassato sia loro
permesso dalla rapina degli stipendi delle loro donne. Temo di usare
nei loro confronti un punto di vista al limite del razzismo, ma non
mi sembra di scorgere significativi segni di cultura etnica da
salvaguardare e rispettare.
Vedo
dei machi che si godono uno stile di vita preso dal modello dei loro
cugini fortunati che se la spassano negli sloom della Florida. Vedo
che gli stipendi delle loro sorelle non bastano ad imitare l'aureo
modello, visto che qui da noi le Nike appena decenti costano 200
euro. Vedo che il modello degli sloom - prendere dove trovi come puoi
quello che vuoi - non è quello che vorrei vedere applicato
nella comunità dove vivo. E so benissimo che è
indecoroso attribuire quello che vedo a un intero popolo, alla
generalità delle persone, ma questo è quello che vedo.
E
so anche che le rapine dei giovani ecuadoriani potrebbero estinguersi
in una settimana. Se le forze dell'ordine avessero i mezzi e la
volontà di farlo. Perché so cosa è successo nel
'92. Allora in un mese una città assai meno bonificata fu
ripulita, che a camminare per San Luca non ti sembrava nemmeno vero.
Furono i famigerati pattuglioni a fare il lavoro.
No, non è
bello vedere la città presidiata, è anche magari
irritante e fastidioso. Ma trovo anche fastidioso un coltello alla
gola o sapere di un uomo morto di botte per una collanina. E non
perché vivo in una città violenta, devastata dai
conflitti etnici, gravata di ingiustizie secolari, ma perché
ci sono una cinquantina di giovani maschi nati in un paese, quello sì
devastato, che vogliono farmi vedere come si fa a pagarsi le Nike.
Giovani maschi che è facile identificare nella loro, al
momento, disorganizzata crudeltà. Si, sono razzista e fascista
e voglio i pattuglioni nei caruggi. E poi tutto il resto,
naturalmente. E poi seri servizi di inserimento ed educazione, di
sostegno e promozione, naturalmente. Servizi per cui non abbiamo una
lira da spendere, naturalmente. Visto che quello che preme è
abbassare le tasse e non innalzare la civiltà del Paese.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 05/09/2004
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