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LA CURA DELLE COSE |
Solo,
mi sono accorto che ciò che più sfianca la mia volontà
di ottimismo morale, il mio animale desiderio di vivere in pace, è,
più dei grandi fatti tragici, il minuto, onnipresente,
generale e apparentemente inesorabile degrado delle cose a me più
vicine. La decadenza, il disfacimento di ciò che posso toccare
con mano, che vedo camminando, che incontro vivendo. Si, se questa è
l'epoca della guerra eterna è anche l'epoca della generale
decadenza, e se una cosa è correlata all'altra non so dirlo,
ma certo non ho un'intelligenza così vasta da tenerle ben
separate e stagne nella mia percezione della realtà. Forse sto
inesorabilmente perdendo la ragione, ma in questo momento, ad
esempio, la cosa più triste e angosciante del mondo ai miei
occhi è una fontana.
Nella città di Spezia, la città
dove sta crescendo mio nipote e invecchiando i suoi nonni, la città
dove incontro i miei teneri, sconsolati amici, c'è una nuova
fontana e una piazza appena rifatta per lei. Non c'è niente di
più confortante di una piazza e di una fontana per la gente
che ci vive attorno, per i bambini che hanno voglia di giocarci, per
i vecchi che la vogliono commentare; per i passanti stanchi, per i
turisti indecisi, per i nevrastenici in cerca di pace. La marmorea
fontana ha la singolare, incoraggiante forma di una prosperosa
vagina; monumento alla fecondità e alla vita, antica divinità
pagana della Terra. Stimolo appropriato per una delle più
depresse città d'Italia. È la prima cosa che vedo
scendendo dalla stazione in centro, e vedere quella fontana ha fatto
bene tante volte anche a me. Il suo dolce scrosciare, il pissi pissi
della gente seduta al bordo che sta facendo conosceza, il zing zing
dei monopattini dei bambini in circuito attorno. È bastato che
passasse un anno, poco più, e questa sera, arrivando, ho visto
i resti già in avanzato stato di disfacimento di quella
fontana. La vasca incrostata di un palmo di muffa nel chiaroscuro
delle poche luci rimaste in funzione, due miserandi bevitori di birra
seduti sul lercio parapetto, in silenzio a dare calcetti svogliati ai
cartocci sparsi per terra. Decadenza, abbandono. La città non
ha saputo amare la sua fontana, come se ne avesse mille, e non ne ha
nessuna. La città non sa neppure mantenere in vita ciò
che le è molto costato delle sue pochissime risorse. Perché?
Credo che sia per la stessa identica ragione per cui su per le
splendide scalinate che salgono poco lontane da quella piazza, le
erbe selvatiche hanno mangiato porfido e pietra serena e gli alberi
sono stati lasciati ammalare e poi morire. La stessa identica ragione
per cui si sono lasciate decomporre e marcire le ferrovie del paese,
degradare le pubbliche scuole, interrotti a metà mille
cantieri. Perché non ci sono soldi, si sa. Perché non
ci sono risorse per la cura delle pubbliche cose.
La cura, curarsi
di ciò che ci appartiene perché ci renda la vita
migliore, più tollerabile anche in tempo di disgrazia. Perché
proprio nei tempi grami abbiamo più bisogno delle nostre
fontane, delle nostre scalinate, delle nostre scuole e ferrovie, e
curarle perché non ci abbandonino. La decadenza mi spaventa
più della guerra. Vivere pensando che forse pagherò
cento euro di meno all'anno di tasse mentre i treni deragliano e mio
nipote ha appena fatto il suo primo giorno di scuola su un banco dove
è inciso un graffito del più che maturo padre di un suo
compagno, un banco che si regge su tre zampe solo, vivere nella
decadenza mi fa più paura della guerra. Si, si sono fermate
molte guerre assai prima di quanto le loro vittime potessero
immaginare, il disfacimento è quasi sempre inarrestabile.
Perché fermarlo costa assai più che fermare una guerra.
26 sett 2004
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