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2004: Genova ritrovi lo spirito o non sarà più capitale |
Eccomi qua, è sabato notte, è inverno, è freddo, e mi sto facendo largo tra i ragazzi stipati tra San Bernardo e Pollaioli. Fossero assembramenti sediziosi domattina saremmo in piena rivoluzione; ma sto navigando tra masse gaudiose, placidamente assorte nel gioco dell'incontro. Le uniche turbolenze si agitano nel fondo di certi sguardi, e sulla spuma delle birre tenute tra le mani in bicchieri di pvc ecologicamente rispettoso. Oppure no, sto fendendo acque in piena fase insurrezionale: per quel che mi è dato sapere di ciò che si stanno dicendo questi ragazzi potrebbe benissimo essere così. So di non conoscerli, anche quando mi sembra di capirli.
Sto tornandomene a casa stanco e insoddisfatto. Ho scarpinato tutto il giorno per la città e ho visto sì e no metà delle cose in programma. Ho in tasca il mazzetto di inviti della settimana e prima di cacciarlo in un cassonetto faccio la conta; esatto: ho perso metà delle opportunità che la città mi ha offerto per dilettarmi e istruirmi. Non recupererò la prossima, a meno che non rinunci a lavorare, a fare la lavatrice, ad andare dal mio amato dentista. Ho la sensazione di vivere in una città di vacanza; avrei voglia di prendermi una vacanza di sei mesi e godermela tutta qua.
Ma
dicono che il prossimo anno la pacchia finirà e così
potrò dedicarmi in santa pace all'onesto lavoro e al
riflessivo ritiro. Forse; forse, chissà, la città
invece ha preso il volo e niente la può più fermare,
nemmeno la contraerea delle prossime cento leggi finanziarie. Sarebbe
bello. E volando dove se ne andrà? Sarebbe bellissimo saperlo
già adesso, mentre mi affretto per l'ultima corsa
dell'ascensore di Castelletto. L'ascensore per il Paradiso, pareva al
poeta. In questa notte di sabato e d'inverno, quanti staranno
pensando la stessa cosa, quanti si stanno chiedendo se la loro città
volerà nel paradiso delle città belle e virtuose? E
quanti se lo stanno prefigurando quel volo, quanti si stanno
interrogando sulla giusta rotta per il Paradiso? Mille, diecimila,
centomila? Il giusto sarebbe settecentomila, quanti sono gli umani
iscritti all'anagrafe e i graditi ospiti loro. Un'intera polis che
pensa a se stessa; dalla Spianata potrei vederlo il vapore di tutto
questo anelito che sale da Nervi a Sestri verso il cielo di Platone e
di Kant.
Intanto
c'è chi ci lavora alla città di domani, e per fortuna
ci sono programmi, e ci sono idee, e ogni altro bendiddio. Tranne i
soldi, probabilmente; ma chi oggi può dire di averne in tasca
a sufficienza, qualunque siano le sue necessità? Ecco, prima
di coricarmi e sognare, vorrei aggiungere anch'io il mio piccolo
contributo. Una cosetta opportunamente a costo zero.
Io
non riesco a immaginare Genova che uguaglia Barcellona, imiti
Lisbona, superi Parigi, prenda le distanze da Londra. Quando penso a
Genova, a ciò che è, a quello che potrà essere,
mi viene in mente solo Genova. So bene quante cose possono insegnarle
le altre città - e gli altri uomini agli uomini di qui - ma so
anche che non ha altra possibilità di esistere se non trovando
ragione in se stessa. Nel suo specifico, originale, unico modo di
essere città. Non è mica semplice. Non è una
questione di politica, di economia, di cultura, non semplicemente di
questo. È una questione di spirito. Lo spirito della città
che si determina e autoregola. O Genova riconosce e afferma in sé
lo spirito progressivo, intraprendente, curioso, libero per volare in
Paradiso, o sarà solo una parodia di qualche altra città,
di qualche altra idea di città. Un aeroplanino che si
spiaccica tre metri più in là. Cos'è Genova?
Sono
arrivato in questa città negli anni '80 e Genova era una città
depressa, una città di gente che camminava con la testa bassa.
Aveva le sue ragioni per farlo. Oggi non è più quella
città e non credo che sia nella sua natura e nella sua storia
di esserlo, ma non saranno mille mostre, mille convegni, mille
miliardi o mille ministri a ricostruire lo spirito di una capitale, a
fare di Genova se stessa. E non basteranno gli architetti, gli
imprenditori, gli intellettuali, i politici che hanno vissuto l'epoca
della depressione, che ne sono stati segnati. Forse ci vorrà
una generazione per farlo, per prendere il volo. Una generazione
intera, tutta. La generazione che ho attraversato venendomene a casa,
quella di cui non conosco i pensieri se non nella superficie. Quella
che questa città non conosce ancora, di cui per antica
gerontocrazia diffida. Ma sono le generazioni che cambiano le città,
le nazioni, i mondi; il resto è illusione di potere, egoismo
autodistruttivo.
A
Barcellona - ci risiamo! - finito il franchismo, è stata la
generazione dei ventenni a farne la città che è oggetto
dei nostri pellegrinaggi. Perché questo sia potuto accadere è
stato necessario che la generazione dei suoi padri fosse cosciente di
avere un unico, primo dovere: educarla alla libertà, alla
intraprendenza, alla responsabilità. È stato necessario
che i padri, con pudore e onestà, lasciassero libero il
passaggio. Il che non significa concedere i contributi per aprire un
caffè, ma garantire i mezzi della conoscenza, della creazione
e del governo di uno spirito. Questo, credo, è il lavoro dei
vent'anni a venire che tocca ai genovesi. Perché forse Genova
è davvero una capitale, e non per un anno.
Maurizio Maggiani IL SECOLO XIX 05/12/2004
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