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MAURIZIO MAGGIANI

Mi riconosco in questo paesaggio, nell'Aurelia che unito terra e mare

Nelle ultime settimane sono andato in pellegrinaggio un paio di volte alla Commenda, ci sono andato, in religioso ossequio, per studiare la grande mostra sui Liguri e contemplare nel polveroso specchio dei reperti archeologici l'orma fossile di ciò che sono, che penso di essere, che vorrei essere, quando a Francoforte o a Mazara del Vallo mi scrutano asserendo: ah! Ligure?
Ligure? Ligure come? Ligure perché?


Mi è stato facile nel corso della vita pensare di essere un mediterraneo: là dove c'è un pezzo di pane, un filo d'olio e un'acciuga salata io sono di casa; e non c'è lingua o costume o guerra che mi impedisca di capire come questo mio mare altro non sia la grande foce di un fiume di genti che, più che navigare, ha traghettato e continua a traghettare cose e pensieri che si mischiano nella disordinata stiva senza fondo della mia cultura. Mi è stato un pochino più difficile, non lo nego, capire che sono un italiano. Al di là del fatto materiale che è qui che pago le mie tasse e onoro il mio dovere di elettore, devo fare un lungo percorso intellettuale di deduzioni per considerarmi qualcosa di meglio di quello che Leopardi pensava fossimo: rissosi paesani senza coscienza di nazione. Forse non è ancora del tutto certo che, fatta l'Italia con il Risorgimento e rifatta con la Liberazione, si sia compiuto l'immane mandato di fare gli italiani.


Siccome, al pari di qualunque altro umano, ho bisogno di una casa, di un riparo all'anima oltreché al corpo, che sia qualcosa di meglio e più solido di una costruzione di mattoni per custodire e ritrovare la mia identità, mi sono costruito appena ho avuto un minimo di mezzi intellettuali, il mito della gente apua. I fieri e selvatici apui, il piccolo popolo che ha resistito due secoli alle legioni di Roma imperiale. Io sono un apuo. Questo mi dico e declamo quando mi guardo alle spalle e non voglio trovare il vuoto, quando ho bisogno di sapere, o immaginare, che vengo da qualcosa e qualcuno che possa perdersi nelle generazioni passate avendo lasciato una storia di sé. Mi spingo a definirmi apuo-ligure per concedere qualcosa alla geografia della mia storia personale, visto che ha avuto inizio tra le pietre dell'anfiteatro di Luni, simbolo della conquista romana delle terre apue, e si è svolta tutta lungo le riviere del Levante.


Ma so che la mia apuitudine è una mitologia, una costruzione della mia fantasia, un riparo letterario. Mi è bastato guardare la mostra dei Liguri; in tutte quelle grandi sale gli apui hanno un angolino in disparte con dentro poche cose, poca storia. Mi aiuterebbe forse a trovare una casa per la mia identità passare armi e bagagli ai liguri? Mi chiedo allora cosa ne so io dei liguri, cosa vedo della Liguria dal mio angolo di visuale all'estremo Levante. Per molto tempo non ho visto niente.


Se chiedete a un milanese di descrivervi un bergamasco, un bresciano, un valligiano della Val Brembana, non esiterà a farvene un ritratto, probabilmente supponente, quasi certamente ritagliato su luoghi comuni: ma tuttavia un milanese ha idea dell'esistenza del bergamasco e viceversa. Se fino a non molti anni fa avesse chiesto a me stesso e ancora oggi chiedessi al mio vicino di casa alla Spezia, al macellaio del quartiere, al mio avvocato cosmopolita, di descrivermi un savonese o un imperiese, non saprebbero dirmi niente, neanche qualcosa di stupidamente campanilistico. E viceversa.


L'inutile pellegrinaggio alla mostra della Commenda


I genovesi forse sì, loro sanno “cose” dei loro antichi sudditi provinciali, mai accolti come cittadini nella loro repubblica. Il bisagnino qui sotto casa non ha dubbi sul fatto che gli spezzini si lamentano sempre, che i savonesi sono infidi, i sanremesi astutamente crudeli. E disdegna con orrore l'idea di assomigliare in qualcosa a questi o a quelli. A me non dispiacerebbe assomigliarli e, assomigliandoci, intenderci tra noi; e magari vedere così di appartenere a una entità un po' più vasta di quella nomenclata nei dizionari popolari alla voce: “taccagni”. Se non altro perché, anche se non lo volessimo, ci hanno pensato gli altri a pretenderci liguri. E a Farci votare come tali. Tanto per cominciare.


Ecco allora il pellegrinaggio alla mostra della Commenda; a cercare di capire chi diavolo sono i Liguri, almeno chi fossero stati, e a cercare di vedermici dentro. Da quello che ho capito non dovevano essere quella gran cosa. Cacciatori, contadini di montagna, che se si sono messi addosso qualcosa di carino, o hanno dato una mano di colore alle loro capanne e dipinto qualche fiorellino sulle terraglie, è perché lo hanno visto fare dagli altri. L'unica cosa pare per cui erano famosi nel circondario era a causa della loro pugnacità e per via di un carattere scorbutico e aggressivo. Quando emigravano dalla montagna era per fare i mercenari. Anche se, guardandomi allo specchio, devo ammettere che qualche somiglianza non possa negarla, i Liguri della Commenda non mi possono bastare. Di certo non sono sufficienza fare una Liguria, una comunità regionale, un intento ligure. Per inciso, quelli là occupavano spazio dalla Versilia e Nizza e oltre Appennino fino alla Padania. Già, che qualcuno vada a dire ai Celti di su che la padania occidentale era roba dei liguri.


Eppure una Liguria c'è ed è qui, sotto il mio naso. Basta che a Levante salga in bicicletta le tre rampette del passo del Termo o che mi affacci da un poggio di Monte Marcello. Basta che a Ponente faccia a piedi la poca strada tra Mentone e Ventimiglia. A Monte Marcello è netto e irriducibile il confine fisico tra la Versilia e Riviera, tra la Valle della Magra e il Golfo dalla Spezia. La valle del dolce fiume femmina, l'enclave Apua sul mare dove io sono nato, è un problema a parte. Che appartenga all'amministrazione ligure è un disguido della storia politica d'Italia. Ma non per questo potrebbe appartenere a Toscana o a Emilia. Noi non siamo di nessuno, ma questa è un'altra storia. Quello che è certo è che, valicato il Termo, comincia un'altra terra. E che cominci, dall'altra parte, un passo dopo la sbarra doganale che non c'è più da tempo. Qui più che la morfologia geologica è la morfologia sociale a stabilire una netta linea di separazione. Basta che mi spinga a nuota a duecento metri dalla riva di confine e da lì guardi la costa: là dove, come fosse tracciata da un filo di lama, ha inizio la colata magmatica della speculazione edilizia e dell'arbitrio urbanistico, là comincia la Liguria. Non ci si può inavvertitamente valicare né travisare. La falesia che precipita nell'abisso marino tra Tino e Tramonti segna l'inizio di un cammino che si conclude nell'identica falesia della vola di Tenda. E non c'è borgo abbastanza perduto nell'Appennino che non senta alitare il sentore dell'aria di mare.


Io l'ho percorsa tutta quanta. A piedi, in bicicletta, in treno, in automobile. E quello che ho visto, nella sottile tonalità delle sue variazioni, è l'inconfondibile paesaggio di Liguria. E una strada che lo attraversa, e lo incide come il segno indelebile di una chirurgia. La Liguria è una riviera, un crinale e l'Aurelia. SS1. L'Aurelia ha stabilito una geografia, una politica, una cultura, un'economia. L'impero di Roma era esente dalla stupidità degli imperi contemporanei: sapeva reggersi e prosperare sul suo Senato e sui suoi ingegneri. L'Aurelia ha reso il mare familiare alla terra stabilendo un flusso di correlazioni e di adiacenze; ha generato una rete di collegamenti con ognuna delle mille valli che penetrano l'Appennino e da lì portano al mondo del nord, ha indotto una certezza della mobilità indispensabile per creare quella vicinanza, che è un fatto, con le genti del grande golfo che si chiude in Catalogna. Perché non serve a nulla andare per mare se, giunti a terra, non si sa dove andare.


Fare il Bracco come se fosse l'Indush Kush


Sono tornato sull'Aurelia, e so quanto la strada abbia portato di cose e di persone e di opportunità sull'aia di casa mia. Duemila anni orsono, l'Aurelia ha creato unità, forse un'identità; di certo un'economia e una cultura. Quando i cantonieri imperiali hanno smesso di fare manutenzione alla strade consolari, si è dissolto l'impero romano, e con la fine dell'Aurelia si è dissolta, nel caso ci fosse mai stata così come il mio sguardo la può percepire, la Liguria. Quando negli anni Sessanta di questo secolo si è pensato di creare nuove strade e una nuova mobilità regionale, si sono costruite una Ventimiglia Genova e una Genova Sestri Levante e ci sono voluti vent'anni perché maturasse il colpo di genio di una Ventimiglia – Livorno. Del resto, a guardare gli orari ferroviari, ancora oggi si possono scorgere dei bizzarri Savona – Milano e Milano – Sestri Levante. Del resto, l'ultimo brigante di strada, il mitico Manzo, teneva in pugno il passo del Bracco a 100 anni dalla resa del Passator Cortese, re della strada, re della foresta. Il Bracco. Il mio primo “grande viaggio”, su una Topolino a nolo nel 1957: andare a Genova, portare il bambino al Gaslini dove dicono che lì possono fare qualcosa. Portare cibo e acqua e coperte, che non si sa mai se troviamo qualcosa per la strada. Fare il Bracco, come se il Bracco fosse l'Indush Kush, e è a quota 540 metri sul livello del mare. Ma a Genova è lontana, lontana da qualunque parte cerchi di vederla, e provi a raggiungerla. La Capitale, la Signoria. “C'è di tutto come a Genova”, di diceva di un posto meravigliosamente ricco ed esotico.


Non fosse bastata la dissoluzione di Roma, il dominio arabo dei mari, l'occupazione barbarica, la servitù della gleba e la rapacità dei valvassori, ha provveduto la Repubblica a conservare in brandelli la Liguria. Gli interessi di Genova non sono mai stati regionali, la Superba non è mai stata capitale della Liguria. Genova è stato un dominio cosmopolita che ha tratto ragione e sostentamento dal commercio e dalla finanza. E, al pari del proletariato, anche per il capitale di investimento “nostra patria e mondo intero, nostra fede e libertà”.


La cura amministrativa della Repubblica si è limitata all'aureo principio “niente grane in casa nostra”. Ai modesti approdi del golfo della Spezia per legge repubblicana non sono mai potuti approdare navigli di lunghezza superiore ai nove metri, casomai agli spezzini fosse venuta voglia di fare un po' di concorrenza alle calate genovesi. E quando il Consiglio ha ritenuto che il golfo potesse diventare un pericoloso oggetto di desiderio per le potenze nemiche, ha pensato bene di mettere al lavoro i suoi ingegneri per deviare un fiume e farlo interrare. Così la facciamo finita. Dal punto di vista dei suoi interessi politici ed economici, alla Superba la Liguria serviva per tenersi nel largo e l'ideale sarebbe stato avere 150 chilometri di deserto a Ponente e 150 a Levante.


E i sabaudi? Beh, loro erano re di Sardegna, ma siccome la Costa Smeralda ancora non era stata inventata, venivano a fare i bagni da noi. E per farli senza l'assillo di nemici alla porte, i cugini di Francia, hanno blindato l'estremo ponente e costruito il più grande arsenale militare del regno a Levante; questa la loro idea strategica della Liguria. E Genova nel mezzo della riviera fiorita. Perché ciò che non ha mai smesso di esistere, anche nei momenti più bui, anche nelle crisi più nere, è stata, ed è rimasta. Genova. Genova si è dimostrata, a volte nonostante se stessa, più forte di ogni epoca e di ogni avversità, la Liguria più debole di ogni opportunità. E chi dalla provincia di Ponente volesse spingersi, per qualunque interesse o anche solo per curiosità, fino alla remota provincia di Levante, o viceversa, finirebbe inevitabilmente il suo viaggio andando a infrangersi sui bastioni dell'unica realtà nata da massicce intenzioni. Di fatto questo Paese non ha mai potuto fare a meno di Genova, piacesse o no la cosa, ma del resto della Liguria sì. Con tutto il rispetto, cominciano a poterne fare a meno persino i bagnanti di mezza Europa.


Il fatto è che io non sono nato a Genova e nemmeno ci sono cresciuto; certo, così sarebbe stato tutto più facile. Me seppure nella capitale metropolitana ci vivo e mi appago di viverci, resterò tutta la vita un provinciale di levante, sottofamiglia apua. E se questo basta alle mie fantasie mitologiche, mi porta nella materia della vita ad anelare a uno spazio più arioso della mia patria vallata. Essere un ligure ospite di Genova, mi appagherebbe, ne sono certo. Ed essere ligure, a parte le battute idiote, significa, tanto per sustanziarmi, comprendere nel mio sguardo così angustamente angolato l'intero arco delle riviere e accoglierlo nella mia idea di comunità operante, di regione elettiva ricomposta dalle sue sparse membra.


Un mandato storico. Ma qualcuno lo sa?


Vorrei poter sovrapporre al paesaggio naturale e antropologico che riconosco e che amo un paesaggio sociale, e poi politico, e poi culturale. Trasparenza su trasparenza, strato per strato, e farli tutti combaciare. Ci sono mille buone ragioni perché questo debba accadere, e non tutte hanno a che fare con la generosità intellettuale. C'è anche materia, trippa e pane. Non parlo di chimere, parlo di necessità elettive, di bisogni concreti. Si può fare questo giochino delle sovrapposizioni, si può immaginare di costruire una regione cominciando dal primo, diafano strato?


Io non credo alla storia dell'irriducibilità del carattere dei liguri, alla loro genetica incapacità a farsi comunità. Non ci credo perché mi puzza di folklore da due soldi e di loschi intendimenti. I costumi, le antiche usanze e millenarie pratiche si possono piegare, mutare, rivoluzionarie. E' successo ovunque nella storia dei popoli. E' successo quando c'è stato chi si è assunto la responsabilità di promuovere i mutamenti generando progetti adatti a consolidare nel tempo quei mutamenti. Una responsabilità squisitamente politica.


Io non ricordo bene quante volte ho votato per le elezioni regionali. Comunque sia non ricordo una sola figura che si sia accollata questo genere di responsabilità. O un partito che si sia assunta quella di immaginarsi un progetto degno di essere ricordato. A dire il vero non so vedere un personale politico meno attivo, creativo, e capace di quello che occupa gli ambiti, lucrosi seggi del consiglio regionale.


Immagino che occorrano generazioni perché si formi da un territorio omogeneo una regione politica. Perché da una politica si formi una regione economicamente, culturalmente simpatica a se stessa. Occorrono generazioni che non lavorino per se stesse, dunque, ma per quelle a venire. Mi chiedo se un solo candidato dei molti partiti che stanno per concorrere alla direzione di qualcosa che assomiglia a un'ombra di ciò che potrebbe essere la Regione Liguria, ha anche solo la minima idea che questo potrebbe essere il suo mandato. Storico.


Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 30/01/2005

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