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MAURIZIO MAGGIANI

La strana autocritica dei Volta & Gabbana

Ho avuto modo di constatare come la crema dei commentatori politici e l'opinione pubblica più fervidamente democratica di tutto il mondo sono andati all'unisono in visibilio all'udire le poche ma storiche parole di Piero Fassino, pronunciate nell'alta assise del congresso del suo partito circa l'Iraq, le elezioni in quel Paese, il pacifismo e il contorno. «I veri resistenti - ha detto - sono quelli che hanno votato». Si è letto in queste parole lo slancio di una profonda autocritica, la presa di una nuova coscienza, l'abbandono fiducioso alla inconfutabile verità.
Io no, io non ne ho gioito.


Una delle cose che mi danno più pena e sfibrano alla consunzione la mia residua speranza di vivere in un mondo di etica dignità, è la constatazione di come mi sia impossibile nutrire rispetto per il personale politico del mio Paese.

Il rispetto necessario per conferirgli il mandato di rappresentare i miei bisogni etici, oltreché materiali, la necessaria fiducia nella sua superiore dirittura, la confortevole convinzione di sapere che chi mi rappresenta è migliore di me e sia lì per spronarmi a dare il meglio di ciò che sono. Credo sinceramente, nonostante che tutto congiuri ad avversare questa convinzione, che "fare politica" possa ancora essere utilmente una questione di principi e di volontà di servire quei principi.
Credo alla coerenza. Credo in chi crede, voglio poter fidare in parole di verità. Sono disposto alla verità, ovunque sia collocata la sua voce, voglio poter nutrire fiducia anche in uomini di cui non condivido le idee, voglio poter rispettare anche senza consentire. Desidero ardentemente pensare che tutto ciò non sia stolta illusione, e per questo vado in cerca di persone da stimare e rispettare anche senza andare in cerca di un partito.


Ho pensato che Piero Fassino potesse essere un uomo di coerenza e che non fosse necessario essere d'accordo con lui per averne fiducia. Che nello schifo che fa il paesaggio politico del mio paese, stracolmo di gente disposta a pentirsi, a ripentirsi, a trafugare principi e trafugare con altri ad essi opposti, a rigettare e leccare ciò che ha rigettato per rigettarlo di nuovo alla prima occasione propizia alla loro smania di potere e di piacere al potere, brillasse per dignità. Non è Lenin, nonostante sia apparso in sogno al primo ministro con barbetta e occhialini, non è Willy Brandt, non Olof Palme, ma uno che a ciò che dice ci crede e prima di parlare ci riflette bene su. Questo ho pensato. E ho bisogno di pensarlo ancora per non morire di cinismo e disperazione civica. Ma posso credere a un uomo che liquida ciò che ha apparentemente fermamente creduto per due anni su un fatto non secondario come la guerra in Iraq e le sue conseguenze, con dieci parolette. Le dieci parole che, guarda caso, sono scivolate dolci come miele nelle orecchie di quelli che contano, o pensano di contare, o si presuppone che contino e conteranno qualora il partito di Piero Fassino tornerà ad essere partito al governo. E piacciono quelle parole proprio perché non sono un ragionamento di verità sulla guerra, sulla democrazia, sul mondo, ma una battuta, uno slogan, uno spot. Piacciono perché piace pensare che la politica e il potere si gestiscano male con i ragionamenti complessi e critici, bene con gli slogan. Perché piace che Fassino assomigli tutti gli altri. L'allegra brigata che veste Volta & Gabbana.


Mi piacerebbe sapere se è possibile che un uomo politico possa assumersi la responsabilità di ciò a cui crede senza perdere la possibilità di governare questo paese. Lo chiedo a Fassino: può un uomo politico carico di responsabilità permettersi il lusso di credere davvero in qualcosa? E come forma le sue credenze un siffatto uomo? Con quale serietà e quali conoscenze, con quanta dedizione alla verità, se è disponibile a rinnegarle senza ulteriori spiegazioni del già noto "contrordine, compagni"? E ancora chiedo a me stesso: cosa ne sanno uomini di alta responsabilità del mondo che interpretano e persino governano? Al presidente Bush, come egli stesso si vanta, non è necessario sapere quasi nulla del mondo e degli uomini che lo popolano per governarlo a suo piacere. È una regola buona anche per lei onorevole Fassino? Glielo chiedo perché mi piacerebbe sapere se e come conosce l'Iraq e gli iracheni.


Io conosco poco l'Iraq, ci sono stato qualche giorno appena, al tempo della prima guerra, forse dunque solo qualche giorno più di lei. Ne ho studiato la storia allora, per cercare di capire il popolo che avevo appena intravisto in un momento di grande tragedia. Eppure quel poco che so mi è bastato per non sorprendermi della grande partecipazione alle elezioni. E non è solo per il loro eroico andare a votare che li considero un popolo fieramente determinato. Fassino sa, ad esempio, che il popolo iracheno è da duecento anni, assai prima degli italiani dunque, che riesce a superare le diversità religiose ed etniche per costituirsi una coscienza nazionale e che questa coscienza è sempre stata avversata da potenti interessi stranieri? Prima da interessi ottomani, poi da quelli della Compagnia delle Indie, poi da interessi tedeschi, russi zaristi e sovietici, e infine inglesi. Da questi interessi sono stati più volte sconfitti, ma non per questo piegati, come si dice. Sa che gli iracheni hanno già votato altre volte nella loro storia? Sa che hanno votato liberamente e in massa già nel 1933, quando nel nostro Paese votare non era nemmeno preso in considerazione? Sa che hanno smesso di votare perché al Foreign Office non sembrava una buona idea continuare a lasciarglielo fare? E per questo è stato inventato quello che il Foreign Office ha definito "un nostro capolavoro", ovvero un tale Saddam Hussein?


Certo che sono eroi resistenti quelli che sono andati a votare. Allo stesso modo resistono eroicamente uscendo di casa ogni mattina, ostinatamente, anche se ancora in questo momento non godono di nessuna protezione efficace da parte di truppe occupanti che non riescono a proteggere nemmeno se stesse. Sono eroici resistenti da tempo. Anche quando si ostinavano a tenere in ordine le aiuole di Baghdad e di Mossul durante i bombardamenti, anche quando difendevano a mani nude i loro tesori archeologici dai banditi che il giorno prima avevano fatto le comparse all'abbattimento della statua del tiranno. E sono stati eroici resistenti quando hanno continuato a incontrarsi e a discutere clandestinamente per i trent'anni in cui è piaciuto a noi che si godessero Saddam.


La storia degli iracheni è la storia di un popolo che ha colto ogni occasione, anche la più piccola, che i più forti di loro hanno concesso per esercitare il diritto alla loro coscienza. Essi nutrono nella popolare generalità un risentimento irreparabile verso i loro salvatori. Per come hanno dimostrato di ritenerli plebe infame e ignorante. Popolo di un Paese che ha più donne laureate di ogni altro Paese dell'Asia.


Possibile che chi va in cerca di coerenza, di coraggio delle idee e delle scelte, debba incontrare solo Mirko Tremaglia
?


Maurizio Maggiani – 07/02/2005



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