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La strana autocritica dei Volta & Gabbana |
Ho
avuto modo di constatare come la crema dei commentatori politici e
l'opinione pubblica più fervidamente democratica di tutto il
mondo sono andati all'unisono in visibilio all'udire le poche ma
storiche parole di Piero Fassino, pronunciate nell'alta assise del
congresso del suo partito circa l'Iraq, le elezioni in quel Paese, il
pacifismo e il contorno. «I veri resistenti - ha detto - sono
quelli che hanno votato». Si è letto in queste parole lo
slancio di una profonda autocritica, la presa di una nuova coscienza,
l'abbandono fiducioso alla inconfutabile verità.
Io no, io
non ne ho gioito.
Una
delle cose che mi danno più pena e sfibrano alla consunzione
la mia residua speranza di vivere in un mondo di etica dignità,
è la constatazione di come mi sia impossibile nutrire rispetto
per il personale politico del mio Paese.
Il
rispetto necessario per conferirgli il mandato di rappresentare i
miei bisogni etici, oltreché materiali, la necessaria fiducia
nella sua superiore dirittura, la confortevole convinzione di sapere
che chi mi rappresenta è migliore di me e sia lì per
spronarmi a dare il meglio di ciò che sono. Credo
sinceramente, nonostante che tutto congiuri ad avversare questa
convinzione, che "fare politica" possa ancora essere
utilmente una questione di principi e di volontà di servire
quei principi.
Credo alla coerenza. Credo in chi crede, voglio
poter fidare in parole di verità. Sono disposto alla verità,
ovunque sia collocata la sua voce, voglio poter nutrire fiducia anche
in uomini di cui non condivido le idee, voglio poter rispettare anche
senza consentire. Desidero ardentemente pensare che tutto ciò
non sia stolta illusione, e per questo vado in cerca di persone da
stimare e rispettare anche senza andare in cerca di un partito.
Ho
pensato che Piero Fassino potesse essere un uomo di coerenza e che
non fosse necessario essere d'accordo con lui per averne fiducia. Che
nello schifo che fa il paesaggio politico del mio paese, stracolmo di
gente disposta a pentirsi, a ripentirsi, a trafugare principi e
trafugare con altri ad essi opposti, a rigettare e leccare ciò
che ha rigettato per rigettarlo di nuovo alla prima occasione
propizia alla loro smania di potere e di piacere al potere, brillasse
per dignità. Non è Lenin, nonostante sia apparso in
sogno al primo ministro con barbetta e occhialini, non è Willy
Brandt, non Olof Palme, ma uno che a ciò che dice ci crede e
prima di parlare ci riflette bene su. Questo ho pensato. E ho bisogno
di pensarlo ancora per non morire di cinismo e disperazione civica.
Ma posso credere a un uomo che liquida ciò che ha
apparentemente fermamente creduto per due anni su un fatto non
secondario come la guerra in Iraq e le sue conseguenze, con dieci
parolette. Le dieci parole che, guarda caso, sono scivolate dolci
come miele nelle orecchie di quelli che contano, o pensano di
contare, o si presuppone che contino e conteranno qualora il partito
di Piero Fassino tornerà ad essere partito al governo. E
piacciono quelle parole proprio perché non sono un
ragionamento di verità sulla guerra, sulla democrazia, sul
mondo, ma una battuta, uno slogan, uno spot. Piacciono perché
piace pensare che la politica e il potere si gestiscano male con i
ragionamenti complessi e critici, bene con gli slogan. Perché
piace che Fassino assomigli tutti gli altri. L'allegra brigata che
veste Volta & Gabbana.
Mi
piacerebbe sapere se è possibile che un uomo politico possa
assumersi la responsabilità di ciò a cui crede senza
perdere la possibilità di governare questo paese. Lo chiedo a
Fassino: può un uomo politico carico di responsabilità
permettersi il lusso di credere davvero in qualcosa? E come forma le
sue credenze un siffatto uomo? Con quale serietà e quali
conoscenze, con quanta dedizione alla verità, se è
disponibile a rinnegarle senza ulteriori spiegazioni del già
noto "contrordine, compagni"? E ancora chiedo a me stesso:
cosa ne sanno uomini di alta responsabilità del mondo che
interpretano e persino governano? Al presidente Bush, come egli
stesso si vanta, non è necessario sapere quasi nulla del mondo
e degli uomini che lo popolano per governarlo a suo piacere. È
una regola buona anche per lei onorevole Fassino? Glielo chiedo
perché mi piacerebbe sapere se e come conosce l'Iraq e gli
iracheni.
Io
conosco poco l'Iraq, ci sono stato qualche giorno appena, al tempo
della prima guerra, forse dunque solo qualche giorno più di
lei. Ne ho studiato la storia allora, per cercare di capire il popolo
che avevo appena intravisto in un momento di grande tragedia. Eppure
quel poco che so mi è bastato per non sorprendermi della
grande partecipazione alle elezioni. E non è solo per il loro
eroico andare a votare che li considero un popolo fieramente
determinato. Fassino sa, ad esempio, che il popolo iracheno è
da duecento anni, assai prima degli italiani dunque, che riesce a
superare le diversità religiose ed etniche per costituirsi una
coscienza nazionale e che questa coscienza è sempre stata
avversata da potenti interessi stranieri? Prima da interessi
ottomani, poi da quelli della Compagnia delle Indie, poi da interessi
tedeschi, russi zaristi e sovietici, e infine inglesi. Da questi
interessi sono stati più volte sconfitti, ma non per questo
piegati, come si dice. Sa che gli iracheni hanno già votato
altre volte nella loro storia? Sa che hanno votato liberamente e in
massa già nel 1933, quando nel nostro Paese votare non era
nemmeno preso in considerazione? Sa che hanno smesso di votare perché
al Foreign Office non sembrava una buona idea continuare a
lasciarglielo fare? E per questo è stato inventato quello che
il Foreign Office ha definito "un nostro capolavoro",
ovvero un tale Saddam Hussein?
Certo
che sono eroi resistenti quelli che sono andati a votare. Allo stesso
modo resistono eroicamente uscendo di casa ogni mattina,
ostinatamente, anche se ancora in questo momento non godono di
nessuna protezione efficace da parte di truppe occupanti che non
riescono a proteggere nemmeno se stesse. Sono eroici resistenti da
tempo. Anche quando si ostinavano a tenere in ordine le aiuole di
Baghdad e di Mossul durante i bombardamenti, anche quando difendevano
a mani nude i loro tesori archeologici dai banditi che il giorno
prima avevano fatto le comparse all'abbattimento della statua del
tiranno. E sono stati eroici resistenti quando hanno continuato a
incontrarsi e a discutere clandestinamente per i trent'anni in cui è
piaciuto a noi che si godessero Saddam.
La
storia degli iracheni è la storia di un popolo che ha colto
ogni occasione, anche la più piccola, che i più forti
di loro hanno concesso per esercitare il diritto alla loro coscienza.
Essi nutrono nella popolare generalità un risentimento
irreparabile verso i loro salvatori. Per come hanno dimostrato di
ritenerli plebe infame e ignorante. Popolo di un Paese che ha più
donne laureate di ogni altro Paese dell'Asia.
Possibile
che chi va in cerca di coerenza, di coraggio delle idee e delle
scelte, debba incontrare solo Mirko Tremaglia?
Maurizio Maggiani 07/02/2005
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